"Quando abbiamo smesso di capire il mondo" di Benjamín Labatut ha vinto la XVI edizione de Premio Galileo per la divulgazione scientifica. L'autore ha dedicato il premio alla moglie Juana Gomez e alla memoria di Roberto Calasso
adelphi.it/catalogo/autor180, EURO 18,00.
TRADUZIONE DI LISA TOPI) - In una notte, in preda a un delirio illuminate, uno scienziato trova, attraverso un lungo e ispirato ragionamento, l'equazione che spiega l'inspiegabile, l'irrazionale della teoria dei quanti. Poi la mattina dopo svegliandosi frastornato non si ricorderà più nulla del ragionamento che lo ha portato fino alla soluzione, eppure l'equazione è valida, e lo sarà per sempre cambiando l'essenza stessa del mondo. E' tutto in questo evento, complesso, mistico eppure frutto di una capacità di comprensione che sfugge al suo stesso autore, il fascino delle storie di scienziati narrate da Benjamin Labatut in quel meraviglioso libro - magistralmente tradotto da Lisa Topi - che è ''Quando abbiamo smesso di capire il mondo'', meraviglioso già dal titolo. Un libro che al quarantaduenne autore ora in Cile ma nato a Rotterdam nel 1980, ha portato giustamente il successo internazionale e pubblicato in Italia da Adelphi.
Tra biografia e finzione, in un intreccio indistricabile di storie,
Labatut narra le vicende di una serie di scienziati che nei primi
decenni del secolo, a cavallo tra le due guerre mondiali, scoprirono
piccole e grandi cose che hanno cambiato il destino dell'umanità e
segnato drammaticamente anche la loro biografia. Vicende riassunte in
qualche modo nel personaggio del giardiniere notturno che compare nel
capitolo finale: ''Il giardiniere notturno era stato un matematico e
parlava della matematica come gli ex alcolisti parlano dell'alcol, con
un misto di brama e terrore'' ed è lui a pronunciare la frase che dà il
titolo al libro. Scienziati che vivono la scienza come una droga, una
tossica priorità nella loro vita a discapito di chiunque li avvicini e
spesso senza curarsi della conseguenze.
Come Fritz Haber,
l'ebreo che inventò un gas dal composto chimico del blu di Prussia,
tanto potente e micidiale da essere usato come ordigno bellico nelle due
guerre con terrificanti conseguenze. Oppure Werner Karl Heisenberg,
fisico tedesco tra i principali artefici della meccanica quantistica
malato di tubercolosi e spesso in preda a visioni apocalittiche. O
ancora Karl Schwarzschild, il matematico e astrofisico che scoprì i
buchi neri, o meglio quel nulla in cui collassava la materia che non
poteva avere spiegazione. Oppure il matematico Alexander Grothendieck,
''che a quarantadue anni di colpo si sentì posseduto dallo spirito del
suo tempo: era ossessionato dai temi dell'ecologia, del complesso
militare-industriale e della proliferazione delle armi nucleari''.
Irregolari, dalle vite spesso borderline, segnati dall'indifferenza per
il proprio corpo che li porta a vivere come barboni, alla malattia, a
soccombere per gli esperimenti sulla propria pelle. Soli per scelta o
per destino, spesso incompresi, eppure trascinati dal genio - se così si
può definire - come un destino tanto inspiegabile quanto inesorabile.
Insomma pura, drammatica, poesia esistenziale, che Labatut racconta con una straordinaria capacità di trascinare il lettore nell'abisso della sapienza. Su tutto aleggia come uno spirito la razionalità fredda ma onesta fino in fondo di Albert Einstein ma non basta per superare la follia in cui precipita il mondo.
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