venerdì 10 maggio 2024

NON SAPPIAMO CHI SAREMO DOMANI


 NON SAPPIAMO CHI SAREMO DOMANI

Ammettiamo di essere cambiati in passato, pensiamo di rimanere uguali in futuro. 

Ma non è così: bisogna imparare a prospettarsi tutte le diverse misure dell'essere.

Una ricerca mette in luce la difficoltà di programmare le scelte economiche e perfino le preferenze alimentari.

Immaginiamo di riempire con sincerità, anonimamente, un questionario che contenga domande sulla nostra stabilità emotiva, introversione o estroversione, apertura a nuove esperienze, credenze, giudizi morali e cos' via. Adesso che lo abbiamo riempito, ci viene chiesto di rifare tutto da capo con le risposte ceg avremmo dato dieci anni orsono. fatto? Ebbene, ora dobbiamo rifarlo di nuovo prevedendo come risponderemo tra dieci anni. Pensiamo proprio di poterlo di poterlo fare, ma così non è. 

Impressioni ingannevoli 

In genere alle persone l'oggi appare come la fine dei tempi interni, una sorta di capolinea della loro personalità. 

Ovvero, una cosa è prospettare, poniamo, una decisione che riguarda il 2024, altra cosa se diciamo <<tra sette anni>>, altra se diciamo <<quando sarò in pensione>>. Non dovrebbe fare differenza, ma non è così.

Qual'è il rimedio? Come adottare una maggiore razionalità nelle scelte che riguardano il futuro? Prospettare nella nostra mente tutte le diverse misure del tempo, formalmente equivalenti, ma psicologicamente distinte. Inquadrare noi e la realtà circostante secondo questi schemi, per renderci conto di come queste diverse misure impattano sulle nostre aspettative. Come sarà il cugino Piero e come il piccolo Andrea tra dieci anni? Poi veniamo a noi e traiamo le conseguenze.

giovedì 9 maggio 2024

DIECI APPUNTAMENTI DA NON PERDERE AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO.

Dieci appuntamenti da non perdere al Salone del libro di Torino

Dal 9 al 13 maggio oltre 2500 incontri al Lingotto e nei dintorni, tra questi i premi Nobel Orhan Pamuk e Abdulrazak Gurnah

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Sono quasi 2mila gli incontri che si tengono dal 9 al 13 maggio al Lingotto, in occasione del Salone del libro di Torino, per la prima volta diretto da una donna, Annalena Benini, oltre ai 500 che il programma del Salone Off ha disseminato sul territorio circostante.

Ai soliti padiglioni (1,2,3 e Oval) se ne è aggiunto un altro, il quarto, temporaneo, che è stato costruito all’esterno, e sarà dedicato alla formazione, alla sperimentazione e allo scambio tra generazioni. Inoltre, come già lo scorso anno, alcuni incontri si svolgeranno sul tetto dell’edificio, nello «spazio Pista 500» che ha riadattato la storica pista utilizzata dalla fabbrica Fiat per il collaudo delle auto e la sua rampa di accesso. Tra questi le «Lezioni sul tetto del Salone» come quella con Domenico Scarpa e Jasmine Trinca, dedicata a Natalia Ginzburg a cui si deve il titolo di questa edizione, «Vita immaginaria», tratto da uno dei suoi libri meno noti.

Per non perdersi nella moltitudine di appuntamenti che coinvolgeranno anche due premi Nobel, il turco Orhan Pamuk e Abdulrazak Gurnah - nato nell’isola di Zanzibar e arrivato in Inghilterra come rifugiato negli anni ’6o - ne abbiamo selezionati dieci un po’ per tutti i gusti.

10 maggio, ore 14:15-15:15, BookLab, padiglione 4, Nicola Gardini presenta il suo libro Studiare per amore Gioie e ragioni di un infinito incanto (Garzanti), un inno alla conoscenza in cui lo scrittore, poeta, latinista, pittore e docente di Letteratura italiana e comparata a Oxford, spoglia la parola “studiare” dei significati deteriori: liberato dal senso del dovere e dell’imposizione, lo studente diventa studioso, in grado di riconoscere nello studio la passione, l’intima ricerca, il dono di innumerevoli possibilità. L’11 maggio, alle 16 nel Bosco degli scrittori del pagiglione Oval, Gardini, con Emanuela Rosa Clot e Cristina Palomba parleranno della scrittrice Pia Pera a partire da Nina e Macchia e altre storie di alberi e giardini (Salani).

10 maggio, ore 17:00-18:00, sala Azzurra, padiglione 3, Elizabeth Strout, la scrittrice premio Pulitzer cui è stata anche affidata la lezione inaugurale del Salone (giovedì 9 alle 14 nella Sala Oro, Pad. Oval) dal titolo L’inizio molto lento della mia carriera molto veloce, parlerà con la sua traduttrice Susanna Basso e Marco Balzano del suo ultimo romanzo Lucy davanti al mare’ (Einaudi) ambientato al tempo della pandemia.

10 maggio, ore 18:30-19:30, auditorium, Centro Congressi, Salman Rushdie, per la prima volta in Italia dopo l’accoltellamento da parte di un fanatico nella quale ha perso un occhio, con Roberto Saviano presenterà Coltello. Meditazioni dopo un tentato assassinio’ (Mondadori), memoir in cui ha raccontato l’aggressione e come è riuscito a rialzarsi.

11 maggio, ore 13:45-14:45, sala Internazionale, padiglione 2, Lukas Bärfuss, Helena Janeczek, Shelly Kupferberg e Tonia Mastrobuoni si confronteranno sul tema «Shoah: memoria delle vittime e vittime della memoria. La narrazione del genocidio degli ebrei alla prova della contemporaneità». Helena Janeczek, scrittrice vincitrice del premio Strega, presenterà il suo nuovo libro Il tempo degli imprevisti’ (Guanda), poco dopo, alle 17:15 nella sala Magenta, padiglione 3, con con Benedetta Tobagi e Dario Voltolini.

11 maggio, ore 19:30-20:30, sala Rossa, padiglione 1, Mariangela Gualtieri leggerà dalle sue raccolte poetiche, quella appena uscita: Ruvido umano, sull’asprezza e la violenza degli uomini e Bello mondo (Einaudi).

12 maggio, ore 12:15-13:15, sala Azzurra, padiglione 3, James Ellroy, maestro del noir americano, presenterà con Alberto Infelise il suo ultimo romanzo: Gli incantatori (Einaudi) in cui troviamo Freddy Otash deciso a sciogliere il mistero della morte di Marilyn Monroe.

12 maggio, ore 13:00-14:00, sala Rosa, padiglione 1, Vivian Lamarque parlerà della sua raccolta L’amore da vecchia (Mondadori), il libro che ha vinto la prima edizione del premio Strega Poesia, con Stefano Petrocchi. Poco dopo, alle 15.15, (Sala Granata, Pad. 1) Lamarque racconterà Emily Dickinson in occasione della pubblicazione di Tutte le poesie nei Meridiani Mondadori). Con Marco Corsi.

12 maggio, ore 14:00-15:00, sala Bianca, piazzale Oval, Paul Lynch, fresco vincitore del Man Booker prize, con Paolo Giordano racconterà il suo ultimo romanzo: Il canto del profeta (66thand2nd), che è anche candidato al premio Strega europeo, insieme a Shida Bazyar, con Di notte tutto è silenzio a Teheran (Fandango Libri), Tore Renberg, con La mia Ingeborg (Fazi), Neige Sinno, con Triste Tigre (Neri Pozza), Rosario Villajos, con L’educazione fisica (Guanda). Tutti i finalisti del premio sono presenti al Salone, e il vincitore sarà annunciato domenica 12 maggio alle 18.30 presso il Circolo dei Lettori di Torino. Sempre il 12 maggio Lynch parteciperà anche alla discussione con Lorenzo Gramatica La letteratura può aiutarci a sentire il dolore degli altri? alle 16 nella sala Madrid del Centro Congressi

12 maggio, ore 16:00-17:00, sala Azzurra, padiglione 3, Abdulrazak Gurnah, premio Nobel per la letteratura nel 2021 ,parlerà del suo ultimo romanzo, L’ultimo dono (La nave di Teseo) con il suo traduttore Alberto Cristofori e Alessia Rastelli. È la storia di Abbas, che non ha mai raccontato a nessuno di quanto accaduto prima di imbarcarsi in Africa come marinaio, prima di incontrare la sua futura moglie Maryam a Exeter e iniziare con lei una vita tranquilla assieme ai loro figli, Jamal e Hanna. A 63 anni Abbas divenuto afasico a causa di un ictus, teme di non poter più confessare il segreto che ha sempre portato con sé. Con lui Gurnah scava nei segreti di una famiglia per mostrare quanto è importante comprendere il passato per capire chi siamo veramente, e chi abbiamo davvero di fronte.

12 maggio, ore 18:30-19:30, sala Azzurra, padiglione 3, Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006 racconterà con Annachiara Sacchi il suo ultimo romanzo: Ricordi di montagne lontane (Einaudi). La letteratura turca sarà rappresentata anche dalla scrittrice e giornalista, ormai in esilio, Asli Erdogan, che il 10 maggio, alle 16, nella sala Bianca del piazzale Oval parlerà del suo ultimo libro tradotto in italiano: Tutte le ore e nessuna (Tamu) con Francesca Sforza.

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lunedì 6 maggio 2024

Il lungotermismo, “L’utopia dei miliardari” che spopola nella Silicon Valley

 

Il mondo sta finendo, ci prenderemo l’universo.

Non è il titolo di un film di fantascienza, ma una delle soluzioni proposte dal lungotermismo: una filosofia molto in voga tra le élite dei miliardari statunitensi, in particolare nel mondo tech, che sta facendo discutere. Perché? Ha provato a spiegarlo Irene Doda ne “L’Utopia dei Miliardari. Analisi e critica del lungotermismo”, un libro in cui l’autrice, con sguardo acuto e critico, analizza il fenomeno nei suoi molteplici aspetti, portando alla luce le sfumature e le motivazioni nascoste dietro questa filosofia nascente.

L’assunto di base è piuttosto semplice: le azioni che compiamo oggi – sia noi come individui singoli sia collettivamente, come società – devono essere mosse dall’intenzione di migliorare il futuro a lungo termine di tutta l’umanità. Di primo acchito potrebbe sembrare un proposito nobile, se non fosse che l’umanità di cui si parla è “in potenza”. Cosa significa? Le vite degli esseri umani potenzialmente esistenti in un futuro remoto, contano esattamente quanto quelle delle persone attualmente viventi.
È un po’ come dire: perché cercare di risolvere la fame nel mondo, ora, se si può promettere di trasferire l’umanità su Marte, tra duecentomila anni?

L’arroganza del potere

Come si possono prevedere con certezza le traiettorie di evoluzione dell’umanità, non solo nelle prossime generazioni, ma addirittura nei millenni a venire, quando tutti i segnali che provengono dal pianeta sono allarmanti e spingono a un’azione immediata se vogliamo evitare il tracollo della Terra?
I lungotermisti si pongono con un atteggiamento intellettuale che l’autrice definisce arrogante, quello di chi è convinto di poter controllare il futuro, predirlo attraverso calcoli matematici e poi proporre formule universali per la soluzione di problemi complessi.

Chi sono i miliardari tech, fan del nuovo culto

Uno degli aspetti che desta preoccupazione è l’ambiente in cui questa filosofia si sviluppa, e quelli che riesce a raggiungere. Tra i fan del lungotermismo troviamo ad esempio Elon Musk, fondatore di Future of Life Institute, organizzazione affine ai valori lungotermisti, ad oggi finanziata da oltre 1.500 donatori: il maggiore, citato sul sito, è Vitalik Buterin, il fondatore della criptovaluta Ethereum. E se l’idea di Elon Musk del viaggio spaziale come occasione per colonizzare il sistema solare per rendere l’umanità una specie multiplanetaria è nota, forse è meno conosciuta la donazione di diversi milioni di dollari fatta al Future of Humanity Institute. Cos’è?

“Il Future of humanity institute – racconta il libro – fa parte di un’istituzione culturale molto potente, l’università di Oxford. All’interno della stessa, e con obiettivi molto simili, nel 2018 è nato il Global Priorities Institute. Entrambi i think tank offrono posizioni lavorative, borse di studio e opportunità nel tentativo di allargare la comunità di seguaci dell’ideologia lungotermista. Non mancano esempi analoghi anche nel settore privato, come la fondazione Effective Ventures, a sua volta finanziata da Open Philanthropy, nata dalla partnership tra due enormi organizzazioni: GiveWell e Good ventures. Good ventures è stata fondata nel 2011 da Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook, insieme a sua moglie Cari Tuna“.

Se dopo questo groviglio di associazioni, enti e founder, intrecciate l’una all’altra, si è creata nella vostra testa un po’ di confusione, forse potrebbe aiutare spiegare cosa hanno in comune tutte queste persone e associazioni. “Legami con le università d’élite americane, con il mondo della Silicon Valley e con i grandi fondi di investimento”, si legge nel libro. “Sono inoltre tutte persone bianche e in grandissima maggioranza uomini”.

Il potere politico dei lungotermisti

Un altro aspetto da non sottovalutare, su cui l’autrice invita a riflettere, è l’influenza politica dei lungotermisti, e la loro capacità di farsi strada tra le maglie del potere mondiale. Persone, scrive Doda, che “non hanno dalla loro parte solo le più importanti élite tech, ma godono di una crescente simpatia tra i decisori politici occidentali.

Toby Ord, ad esempio, uno dei primi a utilizzare il termine lungotermismo, è stato consigliere dell’Organizzazione mondiale della sanità, della Banca mondiale, del World Economic Forum, del Consiglio per l’intelligence degli Stati Uniti e del Governo britannico. Sam Bankman-Fried, seguace dell’altruismo effettivo (la corrente a cui il lungotermismo si ispira), “nonché fondatore della piattaforma di scambio di criptovalute FTX, fallita lo scorso novembre, ha incontrato Bill Clinton e Tony Blair”. Holden Karnofsky, sopra citato, collabora con l’Ocse in qualità di esperto di intelligenza artificiale.
Per questi motivi, secondo l’analisi dell’autrice, “il lungotermismo potrà avere effetti molto concreti sulla distribuzione delle risorse, sulla gestione della crisi climatica, sul modo con cui affrontiamo le diseguaglianze.”

Il business dell’apocalisse

In questa visione di grande prosperità futura, che non risente dei confini terrestri, temi come il cambiamento climatico non rappresentano un problema né tantomeno un’emergenza. Il rischio dei disastri naturali e il timore dell’estinzione creano inoltre una falsa immagine di una collettività di individui tutti ugualmente vulnerabili, quando di fatto […] le differenze di classe influenzano enormemente la capacità di adattamento delle comunità ai cambiamenti climatici. I super ricchi hanno attivamente già iniziato a progettare la loro fuga dal mondo in fiamme: basti pensare al business dei bunker post-apocalittici di lusso, in crescita negli ultimi periodi.

I miliardari, soprattutto quelli provenienti dai circoli tech e dalla Silicon Valley, sono molto interessati all’idea del collasso della civiltà. A come loro possano sopravvivere alla fine, ma anche a come trasformare la fine del mondo in una straordinaria opportunità di business. Nel libro “Solo i più ricchi. Come i tecnomiliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui”, lo studioso di impatti sociali della tecnologia Douglas Rushkoff racconta di un suo incontro con cinque delle persone più ricche del pianeta in una località segreta, per offrire una consulenza sul futuro della tecnologia. Il testo di Rushkoff è un resoconto dell’esperienza al limite dell’assurdo, del suo dialogo con i cinque super ricchi che stavano ragionando su come allestire il loro rifugio dell’apocalisse. Le domande che il professore si è visto porre erano le più svariate, da “in quale criptovaluta è più sicuro investire?”, fino a “come proteggere il bunker dalle folle inferocite e impedire che le mie forze di sicurezza private si ribellino ed eleggano un loro leader?”.[…]

Quanto è radicata questa filosofia e come si sta espandendo?

“Il lungotermismo è ancora una filosofia elitaria, che circola principalmente in ambienti tech e accademici”, afferma Doda ad Alley Oop – Il Sole 24 Ore. “Sta però prendendo piede in alcune grandi istituzioni come le Nazioni Unite e alcuni dei suoi concetti chiave, come quello di rischio esistenziale, sono diventati centrali nei discorsi sull’intelligenza artificiale”.

Possiamo fare qualcosa?

Alla luce di questo quadro, il lettore si chiede se esista una via d’uscita, un’alternativa percorribile per non restare osservatori passivi. Lo abbiamo chiesto a Doda. “Io penso di sì”, risponde. “Cominciando, magari, a capire davvero le problematiche attuali e come impattano sui cittadini di oggi e sulle prossime generazioni, quelle su cui abbiamo un effettivo spazio di influenza, togliendo il monopolio del discorso ai miliardari e riconducendole all’interno di uno spazio democratico”.

La pars construens, ricorda l’autrice, è sempre difficile, dal momento che, quando si parla di accesso al potere, vi è una grande distanza tra i cittadini e le cittadine comuni e chi detiene il potere economico. “Tuttavia – conclude – possiamo forse imparare qualcosa dal relativo successo del lungotermismo: l’idea che abbiamo bisogno di avere una visione del futuro, oltre che di comprendere e dibattere, nelle sedi democratiche e popolari, idee complesse come quelle sullo sviluppo tecnologico. Immaginare radicalmente qualcosa di diverso, non semplicemente reagire alle emergenze, è fondamentale per iniziare a costruire. Io propongo di partire dal basso, ispirarsi ai movimenti di rottura radicali, come quello ambientalista e quello transfemminista, che da luoghi periferici hanno saputo parlare al mondo. Si possono trovare anche altri esempi. Ma non possiamo lasciare l’immaginazione del futuro, e l’utopia, solo ai miliardari”.

Autrice: Irene Doda
Titolo: “Utopia dei miliardari. Analisi e critica del lungotermismo”
Editore: Tlon, 2024
Prezzo: 12 euro

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 Il lungoterminismo (dall'inglese longtermism, da long term 'lungo termine'; talvolta italianizzato approssimativamente in lungotermismo) è una corrente di pensiero che considera eticamente prioritario influenzare positivamente il futuro dell'umanità «a lungo termine».

Dal coraggio alla felicità: le parole che raccontano il nuovo lavoro.


Dal coraggio alla felicità: le parole che raccontano il nuovo lavoro.

Costruire una nuova dimensione culturale per il mondo del lavoro: è a questo che stiamo assistendo oggi, in un momento storico di grandi cambiamenti, in cui sempre più persone si interrogano sul ruolo del lavoro nella propria vita. Dopo che la pandemia ha reso sempre più fragili i confini tra vita privata e professionale, per moltissime persone si è accentuato il disamore verso il lavoro e si è cominciato da più parti a dire basta al modo in cui fino a oggi è stato inteso: una struttura totalizzante dentro cui viene declinata la nostra intera identità.

Ma se questo modo di intendere il lavoro ha fatto il suo tempo ed è ormai destinato a cedere il passo a un “lavoro nuovo”, qual è appunto questo lavoro nuovo? In cosa si distinguerà dal vecchio corso? E, soprattutto, è già cominciato?

L’editore Franco Angeli prova a tracciare un percorso di parole e lemmi, per arricchire il vocabolario del lavoro e provare a creare una nuova grammatica. “Voci del lavoro nuovo” è il nome della collana, la cui direzione è affidata a Silvia Zanella, che già con il suo libro “Il futuro del lavoro è femmina”, aveva spiegato come stanno cambiando modelli organizzativi e stili di leadership grazie allo sblocco di quelle competenze che finora sono state attribuite in maniera stereotipata alle donne – l’empatia, la cura, la sensibilità, la capacità d’ascolto, di comunicazione, d’emozionarsi.

Ecco allora che grazie alla visione di Zanella, il nuovo vocabolario non solo è tracciato con coraggio (e “Coraggio” è appunto la parola che dà l’avvio alla collana), ma nelle parole scelte c’è anche la volontà di una risignificazione, per dare un senso differente o inedito alle parole che non sono mai entrate a pieno titolo nel mondo del lavoro, o se lo hanno fatto, sono state depotenziate, utilizzate come delle buzzword altisonanti ma innocue.

La felicità è individuale e collettiva

Prendiamo “Felicità”, ad esempio, il secondo volume, scritto da Chiara Bisconti. Da una prospettiva individuale, verrebbe subito da chiedersi perché mai un’azienda dovrebbe preoccuparsi della felicità dei propri dipendenti. Motivazione, soddisfazione, benessere, certo, ma la felicità non è una questione squisitamente soggettiva? Sì e no. Scrive Bisconti: “La felicità individuale è privata e unica. Insindacabile e non oggetto di interesse alcuno, al di fuori di noi stessi. Men che meno di manager o direttori del personale. Quella pubblica è collettiva. Nasce dalle relazioni tra persone, nei luoghi in cui si incontrano. È frutto della volontà di costruirne lo spazio”.

Ecco allora che la responsabilità della felicità appartiene all’individuo e alla collettività in un modo che si interseca e si compenetra in continuità. Spiega Zanella: “Dal punto di vista collettivo, la felicità può essere messa in atto anche all’interno delle organizzazioni, mettendo a terra delle condizioni felicitanti, ad esempio attraverso una delega e una maggiore responsabilizzazione delle persone in maniera flessibile, attraverso l’uso della bellezza, la pianificazione di spazi e l’ascolto delle diversità”.

Bisogna però essere disposti a superare i modelli conosciuti e trovare nuovi modi funzionali di agire il lavoro. Come racconta Bisconti: “Ci sono nuovi modelli organizzativi che mettono in discussione modi obsoleti di lavorare. Ci sono aziende che ribaltano l’uso dello spazio e del tempo, che cancellano la gerarchia esibita e ricercano quella esclusivamente funzionale, che sperimentano nuovi modi di attribuire le responsabilità. Ci sono luoghi lavorativi che lasciano spazio alle emozioni e mettono l’unicità della singola persona al centro del loro pensiero””.

Ecco allora che manager, organizzazioni e aziende hanno la responsabilità di costruire ambienti e spazi in cui possa fiorire la felicità collettiva, e allo stesso tempo l’individuo ha la responsabilità della propria felicità che “in un contesto relazionale, contribuisce alla maggiore felicità, o infelicità, collettiva”.

C’è qualcosa di vibrante in questa visione. Così semplice eppure così facilmente ignorata e posta in secondo piano. Laddove le gerarchie sembrano essere costruite per spostare le responsabilità in modo che non ricadano mai davvero su nessuno, tutto cambia se si applica una visione orizzontale sulla collettività. E cambiano anche i fini: in una nuova piramide di valori, la soddisfazione portata dal lavoro non dipende più esclusivamente dal reddito o dal ruolo, ma molto ha a che fare con una quotidianità che è spazio collettivo e generativo.

È finito il tempo dei supereroi solitari

Se stiamo cercando dunque una risposta al tema delle “grandi dimissioni”, forse è proprio guardando nella direzione della collettività che possiamo trovarla. Tra innovazioni tecnologiche, pandemia, emergenza clima, la paura si è insidiata subdolamente nelle nostre vite e anche il mondo del lavoro ne è stato colpito. Perciò bisogna parlare oggi di coraggio, parola che è stata scelta come si diceva sopra per il primo volume della collana, scritto da Annalisa Galardi.

“Coraggio era una parola che già esisteva ma va riempita di senso nuovo e aggiornato”, spiega Silvia Zanella: “Quindi non più il coraggio del superuomo, del super manager che decide tutto in maniera eroica e solitaria, ma il coraggio di prendere decisioni collettive, il coraggio di delegare, il coraggio anche ammettere di propri errori”.

E come scrive invece Galardi: “Nel mondo delle organizzazioni oggi questo significa scommettere sulla responsabilità di ogni persona e disegnare contesti che sappiano favorire comportamenti orientati a generare valore per la comunità in un’ottica di sostenibilità. Alle grandi dimissioni occorre rispondere con un grande ripensamento che riguarda ciascuno, il suo rapporto con un lavoro che cambia e deve sempre più tornare ad avere un senso importante per le persone e la collettività”.

All’atto pratico, Galardi non fornisce ricette o indicazioni operative, ma fa di meglio: offre gli strumenti per sviluppare un pensiero sistemico che può essere messo in azione in ogni contesto e in ogni realtà lavorativa. Parla di alleati come generosità, creatività, agilità, linguaggio. Così come nella musica jazz ogni musicista si apre alle possibilità della melodia ogni volta che vi è un’alterazione, così anche “la struttura organizzativa deve tener conto delle caratteristiche di un contesto incerto e in continuo cambiamento”, scrive. Ed è con questo tipo di coraggio, creativo e in ascolto, che bisogna misurarsi oggi, nel cambiare le regole del gioco.

Nuove voci per un nuovo lavoro

È importante osservare anche che nella scelta autorale per questa collana, Silvia Zanella abbia operato in una direzione molto chiara: “La collana si chiama Voci del nuovo lavoro, e ‘voci’ è inteso in due sensi: sia perché si tratta di lemmi di un nuovo dizionario, ma anche perché sono punti di vista non tanto di accademici, manager, consulenti, ma persone, tra cui molte donne, che possono dare un contributo nel vedere il nuovo lavoro in maniera diversa, facendo appunto sentire la loro voce. E i libri si parlano poi anche l’uno con l’altro”.

Al momento sono quattro i volumi pubblicati: oltre a “Coraggio” e “Felicità”, anche “Vulnerabilità”, di Biancamaria Cavallini, e “Partecipazione”, di Roberta Zantedeschi. E possiamo anche anticipare che le prossime parole, in uscita dopo l’estate, saranno “Autenticità”, “Cura” e “Unicità”.

Voci scelte dalla visione di Zanella, che ha l’ambizione di offrire prospettive inedite per il ridisegnarsi del mondo del lavoro. Ed è lei stessa a spiegare quale visione la guida: “Per me lavoro nuovo è quello che si fonda su una nuova alleanza fra singolo lavoratore, il suo team il suo gruppo di lavoro e l’azienda. È importante pensare a nuovi termini di collaborazione, di ascolto, di empatia, andando a enfatizzare delle competenze trasversali che valorizzino il singolo contributo che la persona può dare. Per me lavoro nuovo è quello che rifugge dai rischi dell’automazione dell’intelligenza artificiale perché va a concentrarsi sulle caratteristiche distintive dell’umanità. Non ha più a che fare tanto con i processi, già resi efficienti dalla tecnologia, ma con la messa in comunione dell’informazione, con l’ascolto dell’altro, con la valorizzazione delle competenze umane. Abbiamo passato un periodo in cui ci sono state forse più chiare nuove priorità, come ascoltare noi stessi, le nostre necessità, grazie anche alla spinta generazionale della Generazione Z, che ha dimostrato di avere altre priorità quando si parla di lavoro”.

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Titolo: “Coraggio
Autori: Annalisa Galardi
Editore: Franco Angeli (2023)
Prezzo: 23 euro

Titolo: “Felicità
Autori: Chiara Bisconti
Editore: Franco Angeli (2023)
Prezzo: 23 euro

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Verso nuovi modelli maschili, opportunità di formazione e crescita per i più giovani


Verso nuovi modelli maschili, opportunità di formazione e crescita per i più giovani

Razionale, ricco, sapiente, virile, attivo, vincente, galantuomo, forte, intraprendente: è davvero questo il “vero uomo”? E se i ragazzi volessero sentirsi liberi di essere anche dipendenti, ipersensibili, pigri, poveri, deboli ed effeminati, senza timore di essere additati o esclusi?

Il progetto CarMia “Caring masculinities in action”, coordinato dall’Istituto degli Innocenti – una delle più antiche istituzioni pubbliche italiane dedicate all’accoglienza dei bambini, alla loro educazione e tutela – fornisce l’occasione per ripensare il concetto di maschilità, un tema sempre più attuale e sentito. L’iniziativa finanziata con fondi europei, in particolare dal bando Daphne (dedicato al tema della violenza di genere) del programma Cerv – Cittadini, uguaglianza, diritti e valori- ha per obiettivo la prevenzione della violenza di genere tra i giovani e la promozione di concetti non violenti, come quello di maschilità accudente.

La maschilità egemonica che fa male anche agli uomini

“L’idea da cui siamo partiti è che esistono modelli plurali di maschilità, non solo quello tradizionale fondato su concetti di forza, dominio, successo, eterosessualità obbligatoria, repressione delle emozioni. Quello che in letteratura viene chiamato maschilità egemonica.” ci racconta Maria Grazia Giuffrida, presidente dell’Istituto degli Innocenti. “Gli adolescenti sono chiamati a confrontarsi con questo modello e coloro che non si riconoscono in tali caratteristiche, spesso si sentono inadeguati e frustrati oltre a correre il rischio non infrequente di venire bullizzati ed esclusi dal gruppo dei pari.” Al contrario, il progetto ha inteso mostrare che ci possono essere molti modi diversi di essere uomo e ragazzo e che non dovrebbe essere necessario utilizzare la forza, “l’imporsi” e la violenza per essere riconosciuti come veri uomini.

La socializzazione maschile ha poco a che fare con la biologia e molto con i condizionamenti di tipo sociale e culturale. Come ha affermato durante il seminario di apertura del progetto Edward Kehler, professore canadese dell’Università di Calgary, esperto di masculinities studies e autore di diversi studi sul tema, “ci sono regole non scritte ma che noi maschi conosciamo bene e a cui tendiamo ad aderire o conformarci fin dalla tenera età, pena il venire escluso dal cosiddetto club dei maschi. Regole che fanno male: alle vittime di violenza sicuramente, ma anche agli uomini. Come quella che c’impone di non mostrare emozioni, vulnerabilità e dolore, soffrire in silenzio per essere adeguati rispetto all’immaginario che ci vuole aggressivi, duri e forti”.

Nel progetto CarMia si è lavorato molto anche sul concetto dei costi della maschilità egemonica, costo salato anche per gli uomini. Vengono citati studi della Canadian Mental Health Association, che evidenziano come gli uomini hanno una probabilità tripla di morire di suicidio rispetto alle donne.

Scegliere un’altra dimensione di maschilità

Un modello diverso di maschilità proposto dal progetto è quello di maschilità accudente, che si fonda sul rifiuto del dominio, il riconoscimento dell’eguaglianza di genere e sull’idea che la cura, piuttosto che essere un dovere naturalizzato per le donne, è un’attività che dovrebbe essere svolta da tutti e tutte indipendentemente dal proprio genere, in quanto è fondamentale per lo sviluppo e la sopravvivenza umana. Cura intesa nel senso più ampio, cura di sé, degli altri, dell’ambiente esterno, della natura e può essere appresa sin dalla prima infanzia, come è stato dimostrato in un altro progetto europeo a cui ha partecipato l’Istituto degli Innocenti chiamato EcaRoM-Early – Care and the Role of Men.
Promuovere una dimensione plurale di maschilità, significa offrire un’alternativa per andare oltre rigidi modelli che ingabbiano i ragazzi, inducendoli a seguire copioni stereotipati che a volte sfociano nella violenza di genere, ma anche nella violenza verso sé stessi e i propri compagni.

Man box: uno strumento per uscire dalla gabbia degli stereotipi

Sono stati diversi gli strumenti proposti nel progetto, ricorrendo anche a metodologie partecipative che prevedono l’uso di giochi e dinamiche interattive. Un esempio è rappresentato dalla man box che consiste nel far riflettere ragazzi e ragazze sui modelli tradizionali di maschilità chiedendo loro da un lato quali sono le parole che identificano ciò che un vero uomo deve essere, secondo una concezione tradizionale, e dall’altro quali sono i corrispettivi costi, cioè le parole che identificano ciò che un vero uomo non può essere o non può fare. L’esercizio si è rivelato molto efficace e immediato. Tra le parole usate dai ragazzi per descrivere un vero uomo troviamo: razionale, ricco, sapiente, virile, attivo, vincente, galantuomo, forte, intraprendente mentre tra le caratteristiche che un uomo non può avere troviamo l’essere dipendente, povero, ipersensibile, pigro, debole, effeminato.

Il teatro dell’oppresso: scegliere un finale diverso dalla violenza

Un’altra metodologia rivelatasi vincente è stata mutuata dall’ambiente teatrale: il teatro dell’oppresso è un metodo ideato dal regista brasiliano Augusto Boal e ispirato alla pedagogia di Paulo Freire, quale strumento per attivare processi di cambiamento personale e sociale. Grazie all’esperienza ventennale di Olivier Malcor autore di “Scripting Violence, Rehearsing change” , sono state messe in scena delle situazioni di violenza (es. catcalling, violenza di coppia tra adolescenti, cyberbullismo ecc) chiedendo sia a ragazzi che adulti di immaginare finali diversi da quelli con cui abitualmente si concludono queste situazioni.


Ciò ha permesso di attivare non solo la dimensione razionale, ma anche quella emotiva consentendo un coinvolgimento molto più profondo. Sia i ragazzi che gli adulti si sono interrogati su quanto una serie di stereotipi di genere possono avere condizionato le proprie esistenze. Inoltre, il mettere in scena situazioni di violenza, le rende molto più visibili ed esplicite mentre spesso la violenza è sempre più spesso normalizzata.

Peer education: i giovani per i giovani

A seguito del percorso di formazione e crescita intrapreso durante il progetto, un gruppo di studenti, ha deciso di diventare a sua volta peer educator, formando ragazzi e ragazze della propria scuola di qualche anno più giovani. Questo approccio è senz’altro molto promettente nella lotta alla violenza di genere nelle scuole, essendo questo il luogo dove spesso avvengono episodi di bullismo e di violenza sui compagni percepiti come più deboli, sulle ragazze e su gruppi vulnerabili come i gruppi LGBTQ+. Per questo i coetanei della scuola possono svolgere un ruolo vitale e positivo nel mettere in discussione il concetto di maschilità egemonica e nello scoraggiare il coinvolgimento dei giovani nella violenza.
I venti peer educators coinvolti nel progetto, hanno raccontato della loro esperienza con grande emozione e orgoglio, come un’esperienza molto formativa che li ha resi più consapevoli e liberi.

Il cambiamento culturale: il più difficile dei risultati da misurare

Il progetto europeo si è svolto in 6 paesi: Italia, Austria, Germania, Bulgaria, Slovenia e Spagna, ed è stato particolarmente apprezzato per la sua ottica innovativa fondata sul focus sulla maschilità e la peer education. In Italia è stato realizzato un corso di formazione che ha coinvolto circa 40 insegnanti di diverse scuole sul territorio toscano e un altro corso rivolto a circa 20 adolescenti che sono stati formati come peer educators su queste tematiche e che a loro volta hanno svolto attività laboratoriali nelle scuole raggiungendo circa 200 studenti. Inoltre le campagne di sensibilizzazione hanno raggiunto un totale di 257mila visualizzazioni nei sei paesi partner della campagna di cui 53mila in Italia.

Ma al di là di questi numeri, risulta difficile misurare quello che è l’obiettivo più importante di questo progetto: il cambiamento culturale.


Parlando con i referenti dell’Istituto degli Innocenti è emerso chiaramente che gli insegnanti e gli adolescenti coinvolti, siano stati entusiasti di poter partecipare all’iniziativa per l’approccio e punto di vista offerti sul tema. Tematiche, quelle delle diverse tipologie di mascolinità, raramente trattate in altri contesti e su cui si avverte un grande bisogno di confronto e riflessione. L’auspicio mostrato dagli insegnanti è che questo tipo di corsi diventi obbligatorio per tutto il personale docente, altrimenti si corre il rischio che i partecipanti siano coloro che sono già sensibilizzati o interessati agli argomenti trattati. Questo è senz’altro auspicabile, in ogni caso il cambiamento culturale passa anche e soprattutto attraverso il cambiamento personale e il passaparola sia tra adulti che tra ragazzi e ragazze che questo progetto ha promosso.

Adottare il modello CarMia: come?

Il progetto CarMia, come tutti quelli finanziati con fondi europei, ha avuto una durata limitata, 2 anni terminati da appena un mese, ma grazie al prezioso lavoro di condivisione operato dall’Istituto degli Innocenti, è possibile accedere ad una grande base di materiali disponibili, per chi voglia utilizzarli in attività educative e di prevenzione della violenza di genere con un focus sulla maschilità.

Segnaliamo in particolare il “Toolkit per professionisti, formatori e formatrici di peer education” che come dice il nome propone lo strumento della peer education come mezzo per raggiungere ragazzi e ragazze in maniera più efficace.


Un ulteriore manuale, che può fornire spunti interessanti, è
stato prodotto nell’ambito di un altro progetto europeo, “Engaged in equality”, anch’esso con l’obiettivo di prevenire la violenza di genere attraverso una riflessione sugli stereotipi e sui diversi modelli di maschilità. Esso è rivolto a insegnanti, educatori e educatrici e propone un percorso di approfondimenti con molte risorse pratiche articolato in quattro moduli: genere e maschilità nell’adolescenza, violenza di genere, dalla maschilità tossica alle maschilità accudenti, prevenzione della violenza di genere in ambienti scolastici, approcci peer-to-peer.


Entrambi i progetti hanno realizzato anche campagne di sensibilizzazione attraverso video prodotti dagli stessi ragazzi e ragazze coinvolti che si possono vedere sui siti dei progetti e sui canali social dell’Istituto degli Innocenti.


In virtù della decennale esperienza in materia di educazione rivolta ai più giovani, l’Istituto è inoltre disponibile per sviluppare progettualità simili con amministrazioni ed enti pubblici, al fine ultimo di promuovere quanto più possibile una società libera da stereotipi e improntata alla diffusione di principi sani di comportamento. A tale scopo è previsto a breve l’uscita, nella collana dell’Istituto degli Innocenti, di una pubblicazione che raccoglie l’esperienza dell’ente su queste tematiche, anche attraverso una serie di contributi di esperti che hanno partecipato agli eventi formativi: “Progettualità innovative nella prevenzione della violenza di genere.  Adolescenza, maschilità, educazione”.

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domenica 5 maggio 2024

REVIEW: DALLA STESSA PARTE MI TROVERAI DI VALENTINA MIRA - SEM EDIZIONI

Questa storia comincia una sera d’inverno, il 7 gennaio 1978. Davanti a una sede del Movimento sociale italiano nel quartiere Appio Latino, a Roma, vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco due attivisti di destra. Da quel momento, i morti di Acca Larentia diventano icone intoccabili del neofascismo”.

 Il libro

Questa storia comincia una sera d’inverno, il 7 gennaio 1978. Davanti a una sede del Movimento sociale italiano nel quartiere Appio Latino, a Roma, vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco due attivisti di destra. Da quel momento, i morti di Acca Larentia diventano icone intoccabili del neofascismo.
Questa storia ricomincia il 30 aprile 1987, quando viene arrestato Mario Scrocca, un militante di estrema sinistra. Secondo gli inquirenti, Scrocca avrebbe fatto parte del commando che colpì ad Acca Larentia. Lo troveranno cadavere ventiquattro ore più tardi, impiccato in una cella di Regina Coeli. Ma troppe cose non tornano…
Questa storia senza fine ricomincia – una volta ancora – un pomeriggio di giugno del 2021. Due donne si incontrano sotto il cielo di Roma. Rossella ha sessant’anni ed è la vedova di Mario Scrocca. Valentina, di anni, ne ha trenta, è cresciuta dalle parti di Acca Larentia, in passato ha frequentato dei neofascisti e si porta dentro le cicatrici di quelle frequentazioni.
Dalla stessa parte mi troverai è il racconto di un amore vissuto a mille nei giorni in cui tutto era ancora possibile e di una vita spezzata al tempo del disincanto collettivo, prima di essere consegnata all’oblio. Con un rigore che non ammette sconti, Valentina Mira fa luce sul vittimismo osceno dei carnefici, demolendo retoriche, alibi, miti di quella destra che si è presa l’Italia.

Rassegna Stampa

C’è un romanzo, ora nella dozzina tra cui scegliere la cinquina finalista del Premio Strega, che per la destra ora al governo non doveva essere scritto, e men che mai arrivare nei pressi della selezione finale del prestigioso concorso letterario. Dalla stessa parte mi troverai di Valentina Mira è “la fiera del revisionismo e dell’odio politico” (Montaruli), “mostra un inaccettabile giustificazionismo nei confronti delle Brigate rosse” (Mollicone), è “la banalizzazione del male che approda al Premio Strega grazie ai favori dell’amichettismo di sinistra’” (Rampelli). Il romanzo, che prende le mosse dalla strage di Acca Larentia del gennaio 1978, è accusato di parlarne in maniera leggera, di essere una sorta di manifesto dell’antifascismo militante e di prendersela ancora una volta con quei morti di destra “di serie B”. […]

Il libro però non parla di questo, ma di una storia pressoché dimenticata che rotola giù dalla strage dei tre ragazzi ammazzati all’Appio Latino. Mario Scrocca, 27 anni, infermiere, vicino a Lotta Continua, sposato con Rossella Scarponi, viene arrestato all’alba del 30 aprile del 1987, accusato (senza prove) di essere nel commando di Acca Larentia. Il giorno dopo, il primo maggio, viene trovato impiccato in una cella antisuicidio. […] Insomma, se i morti di Acca Larentia sono “di serie B”, il povero Mario non milita neanche nella Lega Pro. Lasciategli almeno il libro. – Eduardo Di Blasi su Il fatto quotidiano

La destra attacca il Premio Strega per il romanzo di Mira su Acca Larentia. Mollicone e Foti di Fratelli d’Italia accusano la scrittrice di offendere la memoria delle vittime, mentre l’autrice, Valentina Mira, ha spiegato quale è stata la spinta a scrivere questo libro: «Il senso di ingiustizia, per non far scomparire nell’oblio un fatto storico dell’Italia contemporanea. Nessuno racconta questa storia, nessuno la conosce. Acca Larentia è unicamente raccontata dai fascisti. Mi piaceva far saltare il loro impianto vittimistico». – La Stampa

«È evidente che il libro non è stato letto perché io non parlo dei fatti di Acca Larentia, ma di Mario Scrocca la cui vicenda non volevo andasse perduta […] Mi accusano di revisionismo, di non avere pietà per le vittime di Acca Larentia, ma fanno una confusione strumentale dimostrando di non conoscere le mie pagine: i ragazzi che morirono in quegli anni terribili erano tutti vittime, spesso non avevano neppure il libero arbitrio di decidere il proprio destino. L’ho scritto e lo ripeto. Diverse invece sono le commemorazioni con i saluti romani e le croci celtiche. Quelli proprio non posso giustificarli, perché io sono e resto antifascista». – Valentina Mira per La Repubblica

Il romanzo di Mira viene descritto dai detrattori come un manifesto di «odio antifascista» e una «ricostruzione a senso unico» dei fatti di Acca Larentia. Basterebbe intanto sfogliarlo per rendersi conto che, nelle intenzioni e nell’esito, è un’altra cosa. Nelle prime pagine descrive un raduno del 2008, identico a quello del 2024: «Mi avevano detto che raduni simili non esistevano più. E questi qua, da dove sono sbucati?». Nella folla appare anche Giorgia Meloni, allora ministra della Gioventù. Poi Mira ricostruisce rapidamente i fatti del ’78, richiama l’orrendo dettaglio del militante fascista che dopo l’agguato intinge un passamontagna nelle pozze di sangue, e proprio su questa scena ributtante fonda la volontà di raccontare una storia d’amore: quella fra una donna e un uomo, Rossella e Mario Scrocca, attestato nel 1987 come uno dei responsabili della strage e morto in carcere in circostanze che restano opache. Mira costruisce una sorta di reportage emotivo dal decennio che precede la sua nascita, interessata essenzialmente a dare voce al dolore di Rossella. Non offende la memoria delle vittime; non dà un contributo alla «fiera del revisionismo», come la vicecapogruppo di FdI alla Camera Augusta Montaruli definisce addirittura questa edizione del Premio Strega. Si ferma su un dettaglio ulteriormente doloroso di una storia tragica. [Racconta invece] una morte derubricata come «danno collaterale», ingiustizia nell’ingiustizia. Chi può sindacare sul diritto di raccontarla? Usare pretestuosamente un romanzo e un premio letterario per giocare alla guerra dei revisionismi e difendere pantheon comunque indifendibili è, più che discutibile, pericoloso. – Paolo Di Paolo per La Repubblica

Dalla stessa parte mi troverai” è l’ultimo libro di Valentina Mira finalista al premio Strega. La giornalista che aveva debuttato nel 2021 con X  è tornata con un romanzo dirompente. E divisivo: come divisivo è il 25 aprile, o la Resistenza (se solo si è fascisti).

Mira conduce, per quasi trecento pagine, il lettore e la lettrice su una traiettoria pubblica e insieme privatissima; come per una chicane, piena di tornanti, da cui si vede lo strapiombo: la violenza intima e la violenza sociale percorre il testo; e divampa sotto ai loro occhi, sbarrati e stralunati. Il piano narrativo si srotola su più livelli temporali.

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“Questa storia ricomincia il 30 aprile 1987, quando viene arrestato Mario Scrocca, un militante di estrema sinistra. Secondo gli inquirenti, Scrocca avrebbe fatto parte del commando che colpì ad Acca Larentia. Lo troveranno cadavere ventiquattro ore più tardi, impiccato in una cella di Regina Coeli”.

Nelle parole di Rossella (la vedova di Mario, suicidato dallo Stato come i tanti Stefano Cucchi dei nostri anni) e in quelle di Valentina, il carnefice e il fascista condividono registri e scambiano manipolazioni. La voce narrante, che raccontando di sé racconta di noi, ci mostra esattamente come si finisce in trappola. E non teme giudizio. Durante la lettura diventa chiaro quanto semplice sia cadere dentro a una relazione tossica: mentre l’uomo dice di amare, tradisce, umilia, minaccia, violenta.

Uscire da una dinamica di oppressione, che sia individuale o collettiva, vuol dire anche analizzare come ci sei finito dentro”.

Ma nel libro c’è molto più di questo: serpeggia, vivacissima, la forza della resistenza, la sola davvero in grado di fermare l’aggressione e l’annientamento.

L’analisi è attenta e lucidissima, in filigrana traspare il ventennio, questo ventennio, e le reazioni dei detrattori non si contano; sullo sfondo, gli anni Settanta, ma anche la giustizia che non c’è. Croci celtiche e corone, a spiegarci chi sono e come agiscono i nostalgici di oggi. Le pagine trattengono a stento il morbo, pericolosissimo, del negazionismo e del revisionismo.

Quello della pacificazione imposta e del perdono estorto è il credo della cancellazione di ogni sopruso, senza assunzione di responsabilità alcuna: un’assoluzione piena, malgrado il fatto sussista e l’imputato l’abbia commesso.

Perciò l’opera di Valentina Mira è un pugno in pieno volto: come una corona di spine, ci fa sanguinare; al tempo stesso ci costringe a fare i conti con i demoni di oggi, fantasmi in carne e ossa. A lei va il merito assoluto e il coraggio d’aver ripescato domande rimaste senza risposta.

Allineare violenza delle relazioni intime e fascismo (che è violenza collettiva) serve a spiegare la normalizzazione. Ci induce a ragionare su una pratica che da troppo tempo, silenziosamente, massacra le donne e instilla veleni, ai danni di una democrazia mai stata tanto fragile e indifesa.

Ma se la normalizzazione è condanna, e può essere esilio dal nostro stesso tempo, resistere è una scelta. La sola, per ripartire da un nuovo 25 aprile di liberazione.

E, intanto, sui diritti delle donne si perde terreno. Potrebbero essere anni gravidi di conseguenze. A cominciare dall’aborto.

Mira, Valentina

Valentina Mira
 
Valentina Mira ha collaborato con vari quotidiani e siti di informazione, tra cui "il manifesto" e il "Corriere della Sera". Scrive per Radiotelevisione svizzera e ha esordito nel 2021 con X (Fandango Libri), una storia vera, diventata un caso editoriale, che racconta la violenza di genere.

 

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Titolo: “Dalla stessa parte mi troverai”
Autrice: Valentina Mira
Editore: SEM
Prezzo: 17 euro

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  • 25 aprile
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I COLLOQUI PER IL CESSATE IL FUOCO AL CAIRO HANNO VACILLATO

 

Palestinesi sul luogo di un attacco israeliano domenica a Rafah, nel sud di gaza. Hatem Khaled/Reuters.

I COLLOQUI PER IL CESSATE IL FUOCO AL CAIRO HANNO VACILLATO

I negoziati tra Israele e Hamas si sono nuovamente arenati, il che signfica maggiore incertezza degli ostaggi israeliani e nessuna rapida tregua per i palestinesi a Gaza. I mediatori hanno lottato per colamre le restanti lacune e una delegazione di hams ha abbandonato i colloqui, hanno detto i funzionari.

La disputa principale riguardava la durata del cessate il fuoco, con Hamas che ne chiedeva uno permanenete e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che esprimeva apertura solo a una sospensione temporanea dei combattimenti.

Hamas ha attribuito la mancanza di progressi a Netanyahu, che ha promesso di organizzare un'offensiva di terra a Rafh, dove si sono rifugiati circa un milione di palestinesi, con o senza un accordo. Israele e gli Stati Uniti sostengono che Hamas abbia ritardato l'accordo. Netanyahu ha detto ieri che la fine della guerra consentirebbe ad Hams di ricostruire le sue capacità militari e di minacciare le comunità in tutto Israele.