sabato 25 marzo 2023

RECENSIONE N.2 "PADRI" DI GIORGIA TRIBUIANI - FAZI EDITORE

 

Giorgia Tribuiani

Padri

Collana:
Numero collana: 499
Pagine: 196 - Prezzo cartaceo: € 16
Data pubblicazione: 24-02-2022 
 
 
 
 
Il libro 
 

È un pomeriggio di primavera quando, con lo stesso corpo e la stessa età del giorno della propria morte, Diego Valli risorge. Si risveglia sul pianerottolo di quello che era stato il suo appartamento, tira fuori le chiavi, prova a infilarle nella serratura ma si trova faccia a faccia con il figlio Oscar, lasciato bambino e invecchiato ormai di oltre quarant’anni. Da qui, ha inizio una vicenda di riconciliazioni e distacchi, una storia intensa e sincera sul rapporto tra padri e figli e sulla necessità del perdono.
Una volta riconosciuto il padre, Oscar affronta il comprensibile straniamento aggrappandosi alle incombenze della quotidianità, mentre Clara, sua moglie, non crede al miracolo e si oppone all’idea di ospitare in casa uno sconosciuto. A complicare le cose, si aggiunge l’arrivo di Gaia, la figlia della coppia, che torna nella città natale per trascorrere le vacanze. Di nascosto dalla madre, che è spesso via per lavoro, Gaia finalmente ha l’occasione di conoscere suo nonno: un uomo profondo, amante della musica, più simile a lei di quanto sia mai stato suo padre. Oscar, al contrario, scoprirà aspetti di Diego che non pensava gli appartenessero.
Dopo il perturbante e vertiginoso Blu, Giorgia Tribuiani torna con un romanzo dalla prosa tesa e accattivante che si appunta su una storia a tre voci di rabbia e dolore, parole non dette e seconde occasioni. Una riflessione sulla famiglia dalla trama originale in bilico tra realtà e impossibile per un’autrice che, come poche, sa scavare nell’animo umano per far emergere il rimosso e stimolare la comprensione con uno stile personale notevole e a tratti sorprendente.

«Padri testimonia come in minime storie possono rivelarsi spazi immensi. Un libro d’amore in senso largo, come accettazione e accoglienza dell’altro, quindi comprensione dell’umano al di là del proprio perimetro individuale. Certo c’è anche di più: la voce del perdono, la generosità di offrire sempre altre occasioni di fronte alla mancanza, all’assenza, ai sempre possibili errori che accompagnano i giorni che ci sono dati. Alla fine, verrebbe solo da dire, da parte di chi scrive come di chi legge: non è niente, è la vita soltanto».
Remo Rapino

 

RECENSIONE

Dopo aver narrato di arte e ricerca di sé nelle precedenti opere Guasti e Blu, Giorgia Tribuiani torna a scavare l’animo umano con un tema più tradizionale, quello dei rapporti familiari, nell’ultimo romanzo Padri, edito da Fazi, trovando anche questa volta una chiave narrativa originale. Dialoghiamo con l’autrice.

Padri mi ha ricordato lo schema dei romanzi di Saramago, che poi andando più indietro è lo stesso della Metamorfosi di Kafka: accade un fatto iniziale inspiegabile e poi il resto è tutto perfettamente logico e conseguente. In questo caso il fatto onirico scatenante è la resurrezione di Diego Valli, padre di Oscar, nonno di Gaia. Dalla Lettera al padre di Kafka è anche tratta la frase in esergo, è quindi lui il “padre” letterario di questo romanzo? E ce ne sono altri?

Kafka è sicuramente il principale modello di riferimento: in primis, come giustamente osservi, proprio per la struttura della narrazione. Come fa notare Tvetan Todorov nel suo illuminante La letteratura fantastica, prima di Kafka la caratteristica principale dei racconti del fantastico era il movimento progressivo dal reale all’irreale: a un certo punto, in un mondo perfettamente conosciuto, si apriva una crepa, uno squarcio, e questo strappo andava via via allargandosi lasciando prima intravedere e poi penetrare avvenimenti non spiegabili secondo le leggi di quel mondo; il personaggio – e quindi il lettore – si trovava in una condizione di “esitazione” dove il nocciolo di tutto, mentre il fantastico esplodeva nella realtà passando dalle poche tracce a una presenza ben evidente e sostanziale, diventava capire se l’evento surreale fosse conseguenza di una distorsione dei sensi (dovuta al sonno, alla pazzia, a sostanze psicotrope) o di leggi fino a quel momento ignorate. Con Kafka tutto questo cambia. Il fantastico, per esempio nel racconto La metamorfosi, irrompe nel reale con la sua piena potenza, spalancando la porta ed entrando tutto in una volta, e poi resta lì, di fronte a personaggi che più che esitare devono lottare per “adattarsi” nella quotidianità alle nuove condizioni. In questo senso Kafka è assolutamente il padre letterario di questo romanzo: come ne La metamorfosi, la crepa nel reale si apre una volta sola anche in Padri, all’inizio, e tutta la storia non è altro che una reazione e un adattamento del reale a questo squarcio; una catena di rapporti di causa-effetto, il crollo delle tessere verticali di un domino dopo la schicchera iniziale. Oltre a Kafka confermo poi anche le influenze da parte di Saramago, oltre che di Dostoevskij (in particolare con I fratelli Karamazov), di Lem e, cambiando totalmente tipologia di romanzi, di Pamela Lyndon Travers: anche nel ciclo di romanzi su Mary Poppins, infatti, l’arrivo del personaggio magico che dà il via alle vicende (e, in questo caso, anche il titolo ai libri) non fa del personaggio stesso la protagonista: protagonista è la famiglia Banks, che cambia, che si evolve nelle sue relazioni e nelle sue epifanie, che disegna – per dirla in termini “tecnici” – degli archi narrativi.

L’elemento soprannaturale del ritorno del padre defunto diventa pretesto per indagare il tema classico dei rapporti familiari. I membri della famiglia Valli non vivono grandi tragedie, eppure sono infelici. Applicheresti ai tuoi personaggi la famosa frase di Tolstoj «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»? E cosa in particolare rende infelice questa famiglia?

La frase di Tolstoj mi sembra appropriata. Aggiungo che, a mio avviso, anche ogni membro di questo tipo di famiglie ha un modo tutto suo di essere infelice: nel caso di Oscar, Clara e Gaia, che non fanno eccezione, il primo lo fa rifugiandosi nelle certezze, nella razionalità, nelle cose che conosce (è un chimico, e come canta De André: «da chimico un giorno avevo il potere di sposar gli elementi e farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l’amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore»); la seconda alzando un muro, arroccandosi nella propria posizione con le proprie certezze; la terza, viceversa, provando ad agire fino a restare quasi senza forze. Ciò che dunque rende infelice questa famiglia, per rispondere alla tua domanda, è principalmente l’incapacità di ascolto. Una famiglia dovrebbe essere composta non solo dai suoi membri ma anche dalle loro relazioni (sono in fondo proprio le relazioni a definirci come padri, madri, figli e figlie, sorelle, fratelli): in quest’ottica la famiglia Valli sembra piuttosto un trio di monadi, di personaggi che disperatamente vorrebbero essere ascoltati, ma che non trovano a loro volta la forza di ascoltare: lo capirà ed esprimerà senza censure il nonno risorto quando, parlando con Oscar a proposito di Gaia, affermerà che «non ci sono vincitori, tra voi due; tu nemmeno la ascolti, la sua ultima parola, e lei non ascolta le tue […] Quello che voglio dire è che ci fate poco, con le ultime parole, se non ascoltate quelle prima»). Del resto la famiglia Valli non è così brava neppure a comunicare, a parlare: il precario equilibrio in cui si trova al momento dell’arrivo del nonno è destinato a infrangersi perché costruito sui “non detti”, su conversazioni sempre superficiali a fronte di movimenti emotivi profondissimi: mostrare questo iceberg è stata una delle mie principali preoccupazioni dal punto di vista stilistico; l’uso abbondante del monologo interiore mi è servito per mostrare quanto ognuno dei tre protagonisti avesse da dire e quanto poco di questo riuscisse poi ad affiorare nel dialogo.

Diego risorge con le stesse fattezze, gli stessi abiti e stessa età del giorno della sua morte. È così che immagini la resurrezione dei corpi? Nemmeno la Chiesa è mai stata chiara al riguardo. Il ritorno di Diego ha per te anche una connotazione religiosa o è solo un espediente letterario per dire altro?

Uno dei principali stimoli all’invenzione di questo romanzo (o almeno della sua prima scena) fu proprio una serie di domande a riguardo che Tiziano Terzani poneva alla Chiesa in uno dei suoi libri: accettata l’idea della resurrezione dei corpi, in quale stadio del nostro corpo è possibile immaginare un nostro ritorno? un uomo mutilato di un braccio è destinato a risorgere con o senza il braccio? l’anziano è destinato a risorgere nella sua “ultima” età o in una precedente, che pure gli è appartenuta? Ricordo che quest’ultima domanda mi colpì, generando subito in me una piccola ossessione e – di conseguenza – la prima scena del romanzo, o meglio il fotogramma in cui l’ultracinquantenne Oscar apre la porta di casa e si trova di fronte il padre più giovane, perché risorto nel corpo lasciato al momento della morte (un corpo di ventottenne nelle prime stesure; un corpo di quarantenne nella versione definitiva nel romanzo). In questo senso la mia immaginazione non è una risposta alla domanda, ma la concretizzazione narrativa di una possibilità.

Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, per me il ritorno di Diego non ha una connotazione religiosa, o almeno non in senso stretto. Al di là delle domande che mi hanno portata a immaginare l’incipit, al di là dell’utilità, come giustamente rilevi, dell’espediente letterario, ha trovato strada nel romanzo una riflessione sul “senso del sacro”, sulla “spiritualità”. In questo senso mi è stato di ispirazione Teorema di Pier Paolo Pasolini: Clara, per esempio, così come la famiglia borghese del romanzo pasoliniano, è talmente arroccata nelle proprie paure e nelle proprie credenze da non saper accogliere l’evento miracoloso in tutta la sua portata; non è in grado di compiere quell’atto di fede (che presupporrebbe prima di tutto un atto di fiducia nei confronti del marito) necessario a colmare la distanza tra la risposta razionale all’arrivo di Diego e l’accettazione che Oscar possa sentirsi legato a quest’ultimo su un piano spirituale.

Tema ricorrente dei tuoi tre romanzi, Guasti, Blu e Padri, è il desiderio di essere visti, guardati, apprezzati. Le protagoniste, Giada, Ginevra e Gaia, con cui condividi l’iniziale del nome, cercano nello sguardo altrui la propria identità. Cosa significa per te, come persona, essere guardata, e come scrittrice coincide con l’essere letta?

Per quanto mi riguarda penso di essere molto simile alla mia Blu: cerco costantemente di nascondere agli occhi altrui le mie paure, le mie fragilità, i miei pensieri “sbagliati” (sono ossessionata dall’immagine che gli altri possono avere di me, da quello che possono pensare – a niente è valso cercare di interiorizzare la frase di David Foster Wallace che tanto amo: «La vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi»); al tempo stesso, però, desidero che gli altri mi comprendano al cento per cento, che mi apprezzino e amino “a prescindere da” (o a volte “anche per”) quelle stesse paure, quelle stesse fragilità, quegli stessi pensieri sbagliati.

Tante volte, scrivendo Blu, avrei voluto dire alla mia protagonista: ma come pensi che possano apprezzarti a tutto tondo se non dai loro la possibilità di conoscerti a tutto tondo? In questo senso Blu mi ha fatto da specchio, così come mi rivedo in lei nel mio approccio all’arte: quello della scrittura è l’unico spazio dove qualsiasi paura scompare, dove riesco a non autocensurarmi, dove sono molto d’accordo con la frase di Giulio Mozzi che recita «la parte di te che scrive non ha bisogno dell’approvazione delle altre parti di te». Tutti i miei romanzi hanno una sincerità violenta che non mi concedo nella vita di tutti i giorni se non con pochissime persone care. La sola idea di parlare in quel modo con tutti gli sconosciuti che mi leggono mi farebbe girare la testa. In questo senso, considerato che nella scrittura riesco a parlare davvero e a non nascondermi, essere letta mi dà una possibilità in più per essere guardata: certo, poi non dipende tutto dall’oggetto ma anche dal soggetto (con, in questo caso, la sua sensibilità più o meno vicina alla mia), e dalla relazione che si instaura tra i due.

In Padri viene ribaltato il luogo comune che vuole il padre razionale e la madre istintiva ed empatica. Infatti, mentre Oscar è subito disposto a credere di avere di fronte il proprio padre redivivo, Clara, sua moglie, porta avanti fino alla fine del romanzo una posizione diffidente e scettica, quando non apertamente ostile. Nella società attuale in effetti i ruoli paterno e materno sono in effetti in trasformazione rispetto alla visione tradizionale. È voluto questo ribaltamento di genere? E cosa rappresentano i due diversi punti di vista dei genitori di Gaia?

Il ribaltamento in questo caso è stato la conseguenza di una scelta: quella di proporre una corrispondenza tra i due padri; di dare a Oscar, che rappresenta la generazione di mezzo e l’anello di congiunzione tra Diego e Gaia, uno “specchio”. Questa scelta di base sulla discendenza paterna ha determinato a cascata un maggiore atto di fede/fiducia da parte di Oscar, una spinta maggiore a “credere”. Probabilmente questo tipo di approccio che prevede l’inquadramento della relazione prima di quello del personaggio (un approccio che si abbina bene a un vecchio mantra dello scrittore Giulio Mozzi: «non esistono i personaggi, esistono le loro relazioni», ma anche al nuovo modo di intendere il teatro per cui l’attore è prima di tutto un re-attore), deriva molto dalla mia visione “liquida” dei caratteri. Oscar è di fatto un personaggio razionale, cosa che la figlia gli rimprovera da anni, ma di fronte alle nuove circostanze è costretto a cambiare, a cedere a quello che “sente”, a rinnegare almeno in parte le proprie certezze. Questo è del resto uno dei motivi per cui amo molto le storie soprannaturali e horror: i personaggi fanno esperienze limite e, per non soccombere, sono costretti a mutare, ad abdicare in favore di altri sé. Fanno e pensano cose che mai avrebbero pensato, sono disposti a tutto, esplorano le proprie potenzialità come mai avrebbero fatto. In questo senso i due punti di vista sono due possibili reazioni “chimiche”: dati due personaggi diversi con due bagagli esperienziali diversi e due reti di relazioni diverse, lo stesso evento ha effetti – va da sé – diversi. Clara è colei che resta ferma, non fa neppure un passo, e perde il contatto con il resto della famiglia; Oscar, aiutato dal proprio bisogno di recuperare il padre, evolve.

A volte le azioni più affettuose non vivono di slanci, ma di mite e ostinata costrizione, Come quei ti voglio bene che la bocca deve sforzarsi a dire. Quel rendere orgogliosi. Successi inaspettati di qualcuno che hai vicino e che hai paura non ti veda come prima. Domata gelosia.” Sicuramente tema portante del romanzo è la difficoltà di comunicazione all’interno dei rapporti familiari, la rabbia, i silenzi, il non detto, l’incapacità di esprimere i propri sentimenti. L’assecondare desideri e aspettative altrui per guadagnarsi l’amore, che – piaccia o meno – non è mai davvero incondizionato. Quanto è giusto secondo te fare questo sacrificio, e quando invece diventa rinuncia a sé stessi?

Questa è una domanda da un milione di dollari. Non credo ci sia una risposta valida per tutti, e ho il sospetto che questa risposta finisca per variare anche per una stessa persona: in base alla fase della vita che sta attraversando, in base al bisogno «d’attenzione e d’amore» di quello specifico momento eccetera. In senso stretto ogni forzatura, ogni costrizione è una – seppure infinitesimale, in certi casi – rinuncia di volontà o di spontaneità, a prescindere dalla bontà del risultato. Alla domanda da un milione di dollari posso dunque dare una risposta che apparirà banale: per me, per come la vedo io, conviene cercare di capire cosa rischieremmo di perdere non forzandoci e cosa (di noi, in primis) facendolo, e mettere i due esiti sulla bilancia.  

Un altro tema portante, strettamente legato al primo, è la seconda occasione, quella che tutti sogniamo: poter tornare indietro a riparare gli errori, nei sentimenti, nel lavoro, nelle decisioni in generale. Ma al termine del libro mi è rimasta una domanda: anche avendo la possibilità di viverle, le seconde occasioni sono risolutive o si finisce per commettere di nuovo gli stessi errori?

L’occasione è uno strumento: riuscire a coglierla davvero, e quindi a non ripetere gli stessi errori, è dunque qualcosa che a mio avviso non dipende dall’occasione, ma dall’avere capito – appunto – di avere commesso degli errori. Dall’avere imparato a usarlo, questo strumento, o dall’essere pronti a tentarne un utilizzo diverso. Perché si possa reagire in modo differente di fronte a uno stimolo simile è necessario (ma comunque non per questo sufficiente) che le consapevolezze siano mutate, maturate; che ci sia stata la volontà di un esito diverso, o quantomeno il suo germoglio: dipende da noi; viceversa la seconda occasione potremmo non vederla neppure.

Il padre di Gaia ha una visione competitiva e meritocratica della vita, tanto che la spinge ad essere sempre la migliore, ad esempio negli studi, subordinando ai risultati anche l’affetto, o almeno la sua espressione. È un atteggiamento piuttosto diffuso da parte dei genitori, che di solito lo giustificano con lo scopo di spingere i figli a dare il meglio, per il loro bene. Non sarà invece piuttosto una proiezione sui figli del proprio ego?

Spesso i genitori tendono a vedere i figli come proprie estensioni, come propaggini: si sentono responsabili dei loro errori e parte dei loro successi. Non dico che questo non possa essere vissuto in modo sano. Il genitore è in fondo il primo educatore. Le cose cominciano a diventare problematiche, tuttavia, quando l’invito a eccellere, o ad appassionarsi a una certa disciplina (penso alle storie di tutti i figli che, a lungo, hanno suonato uno strumento o praticato uno sport, magari anche agonistico, solo per “compiacere” il genitore, o a quelli che hanno rinunciato ai propri desideri per ereditare il lavoro del padre o della madre), non hanno più a che fare con il figlio, ma con il genitore. Con le sue passioni o – in alcuni casi – con le sue frustrazioni. “Non sono riuscito a diventare nessuno, ma adesso mio figlio…”.

Penso che, come in tutte le cose, il segreto sia nella misura e nella consapevolezza, nella capacità di distinguere le spinte altruistiche da quelle egoistiche (non dico sia facile: a volte, e questo non riguarda solo il rapporto tra i genitori e i figli, non sappiamo accettare per esempio che un talento venga sprecato a fronte di un mancato interesse nel coltivarlo, o che una persona che sappiamo caparbia si abbatta – specie se la amiamo) e nella cura con cui si usano le parole: nel mio romanzo Gaia sente di dover “meritare” l’amore di suo padre («è come se il suo affetto – confida al nonno – dovesse passare per l’orgoglio. Che quando disapprova con lo sguardo ti pare che tutta la Terra disapprovi; che tutto l’affetto della Terra potevi meritarlo e non l’hai fatto»). Di fronte a una situazione di questo tipo un figlio può sentirsi sotto ricatto morale, mentre al contrario dovrebbe sempre potersi sentire sicuro del bene del proprio padre; dovrebbe poterlo sapere svincolato dalle proprie prestazioni.

Ad un certo punto mi sono chiesta, ma il padre, non lo dovevamo uccidere? Perché invece continua a risorgere? Gaia, universitaria ormai prossima alla laurea, si preoccupa più di tutto dei rapporti tra suo padre e sua madre, tra suo padre e suo nonno, invece di costruire rapporti propri, con gli amici, con un nuovo amore. Giovane ma già vicina all’indipendenza, perché continua a guardare al passato, invece di lanciarsi nel futuro? Si dice che in Italia troviamo particolare difficoltà a staccarci dalla famiglia d’origine, a livello sia economico e sociale che psicologico, credi che sia vero?

Non saprei: da un lato al giorno d’oggi i figli tendono a restare con le famiglie d’origine fino a un’età molto più avanzata rispetto al passato, o a dipendere economicamente da queste; dall’altro è vero anche che oggi ci sono figli che non possono contare come un tempo sulle case di proprietà (che spesso in passato erano limitrofe a quelle dei genitori, o magari erano appartamenti al piano di sopra o di sotto), figli che lasciano il “nido famigliare” a diciotto anni, figli che si spostano all’estero per avere più opportunità lavorative. C’è una complessità tale che rende – almeno a me, che sono una profana in materia – molto difficile l’interpretazione. Differente è secondo me il discorso psicologico. Oggi i figli possono “parlare” con i propri genitori, osservare le loro problematiche, vederli divorziare, innamorarsi, soffrire, piangere, sfogarsi: la distanza relazionale di un tempo è quasi azzerata (ricordo che mia nonna disse una volta che ai suoi tempi dava “del voi” alla madre, e certamente non c’era spazio per le confidenze reciproche) e credo che per certi versi sia naturale preoccuparsi di più per genitori che ci appaiono più umani, della cui felicità a volte finiamo per sentirci addirittura responsabili (è poi uno dei temi di Blu, il mio secondo romanzo, dove la protagonista si “investe” di un ruolo che la obbliga a rendere sempre felice la madre, pena un forte senso di colpa e di inadeguatezza).

Mi ha colpito il personaggio di Diego, il nonno, che si ritrova in un mondo diverso da quello che conosceva, più complesso, più tecnologico, in cui l’amata moglie non c’è più e gli amici sono morti o invecchiati al punto da non riconoscerlo. A una lettura superficiale Diego può apparire come puro strumento per la crisi e la crescita degli altri personaggi, ma in realtà la sua dimensione personale è la più tragica.  “È che il tempo della morte è un tempo crudele, non conserva il nostro posto: è come quando giochi a beach volley, no?, che se esci, se vai a prendere un gelato, non è che poi rientri quando ti pare; non è che prendi e fai lo schiacciatore mentre in campo c’è altra gente” scrivi verso la fine. Anche lui ha una seconda occasione, ma saprà coglierla? Cosa rappresenta Diego in sé stesso, al di là degli effetti del suo strano ritorno?

Diego, per me, è proprio colui che la seconda occasione non può coglierla, o almeno, sicuramente, non fino in fondo. Se è vero quanto ho scritto prima, e cioè che l’occasione è solo uno strumento e che siamo noi – è il nostro modo di essere e di approcciarla con tutta la consapevolezza che abbiamo degli errori commessi e delle cose che vorremmo cambiare – a fare la differenza, se questo è vero, il povero Diego, che si trova proiettato in un battito di ciglia da un tempo all’altro, da una vita all’altra, da una rete di relazioni all’altra, manca di tutto un percorso, non ha materialmente la possibilità di accogliere il miracolo che gli viene donato, e che di fatto, comprensibilmente, lui non riconosce come tale. «Non ci sono possibilità, per me; non più. Non sono parte di niente. Questo non è il mio tempo. Questo non è il mio miracolo.», affermerà verso la fine, e avrà ragione: quello che lui sta vivendo è il miracolo di Oscar, di un uomo che ha avuto tutto il tempo di cambiare e di interiorizzare il passato prima di trovarsi di nuovo faccia a faccia con il proprio padre e con le proprie ombre.

Ho trovato tra le righe un’attrazione appena accennata tra Diego, il nonno rimasto quarantenne, e la nipote Gaia. Lui rivede in lei la moglie quando era giovane, lei trova in lui una figura più sensibile e affine rispetto al suo vero padre. Hai mai pensato a una linea narrativa in cui tra i due nascesse una storia d’amore, che si potrebbe definire ultra-edipica? O questa traccia l’ho vista solo io, perché mi piace pescare nel torbido?

Sei una lettrice incredibilmente attenta! In una precedente stesura il nonno risorgeva un po’ più giovane (ventotto anni, come scrivevo rispondendo a una tua domanda precedente) e Gaia era al contrario un po’ più grande (venticinque) e tra i due si creava una particolare attrazione. Questo improvviso riconoscersi di Gaia nel nonno – uno spirito poetico e romantico e amante dell’arte come lei – danzava sul confine tra affetto famigliare e sensazione di aver trovato “l’uomo giusto”: il significato della storia si spostava un po’; suonava come: «tutti noi vogliamo essere amati dalla nostra famiglia e alla fine creiamo da zero una famiglia che ci ami». Aveva un suo senso, ma al tempo stesso si discostava troppo da quello che volevo raccontare: il tentativo da parte di Gaia di “sostituire” il padre, seguito dalla consapevolezza di avere messo a confronto un genitore con tutti i suoi difetti (Oscar) con un uomo idealizzato (Diego). Insomma: mi interessava rimanere sul tema della paternità e della sua percezione, senza rischiare che il lettore concentrasse la sua attenzione su altro. Così ho invecchiato Diego e ringiovanito Gaia, in modo che la distanza di età tra i due potesse generare più un rapporto padre-figlia che uno amoroso. Si vede che un po’ della tensione che avevo infuso nelle scene tra i due deve essere rimasta palpabile, per un occhio attento.

C’è chi dice che si scrive per tutta la vita lo stesso libro, e c’è chi effettivamente lo fa, invece tu ci hai già dato tre romanzi molto diversi, sia per quanto riguarda i temi che lo stile, a questo punto siamo curiosi del prossimo, che cosa stai preparando?

Per tematiche e costruzione, il prossimo romanzo sarà sicuramente il più lontano da tutti gli altri: ho appena terminato la prima stesura di una storia corale dove, in un villaggio immaginario le cui comunicazioni sono in mano a merli grandi come bambini, tutti gli abitanti vengono chiamati a partecipare a uno strano macabro gioco, con tanto di regolamento, penalità e premio per i vincitori.

A narrare la storia, questa sorta di favola nera, è una voce che cerca di ricostruire i fatti raccogliendo lettere, pagine di diario, appunti e altri documenti che sono presenti a loro volta nel testo, come inserti.

Mi sono divertita moltissimo.

 

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