sabato 27 aprile 2024

MATURARE TARDI DI MO YAN, EINAUDI, 2024 SUPERCORALLI.

Mo Yan
Maturare tardi

 Einaudi

2024 Supercoralli
pp. 368 - € 22,00

 

 Nei dodici racconti di questa sua nuova raccolta, Mo Yan ritorna a Gaomi, la sorgente mitica della sua narrativa, nel Nord-Est della Cina. E mettendo in scena vecchi amici, parenti e perfino se stesso, attraverso lontani ricordi e nuove avventure, nella doppia veste di bambino e scrittore famoso, racconta gli impetuosi cambiamenti che alla fine hanno raggiunto anche il suo paese natale. Arrivare tardi alla maturità, cosí come succede a uno dei suoi compaesani, che da scemo del villaggio si è trasformato in imprenditore di successo, non è per forza un difetto. Meglio anzi non maturare mai, non cristallizzarsi, e non riposare sugli allori.

Il libro

C’è chi nasce coraggioso e da grande diventa un vigliacco, e chi da piccolo ha paura di tutto e una volta cresciuto diventa intrepido. È questa la differenza tra chi matura presto e chi matura tardi, ci spiega Mo Yan nel racconto che dà il titolo alla raccolta. A ispirare questa riflessione è il suo amico d’infanzia Jiang Er, che in passato era uno dei quattro scemi del villaggio e ora è diventato un imprenditore di successo. La parabola dell’amico non è priva di sotterfugi e risvolti comici, ma il tema sta davvero a cuore all’autore, il quale ha dichiarato in un’intervista che essere maturi equivale a raggiungere una forma definitiva, a cristallizzarsi, dunque: quanto di piú pericoloso per uno scrittore, soprattutto quando ha vinto un premio importante come il Nobel. Meglio non dormire sugli allori, sembra dirsi Mo Yan. Se l’impulso creativo è sempre nuovo, il territorio esplorato è quello d’elezione: Gaomi, nella provincia dello Shandong, dove l’autore è nato e cresciuto. Molti racconti hanno per cornice un suo ritorno a casa, durante il quale incontra parenti e vecchie conoscenze, di cui ci racconta la storia o che a sua volta gli confidano vicende e pettegolezzi. I testi spaziano cosí dai suoi ricordi d’infanzia, ambientati all’epoca dolorosa del Grande balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, fino ai tempi attuali, non sempre meno problematici. Muovendosi agilmente in questa materia densa, Mo Yan posa su tutto il suo sguardo ironico e sferzante, ma a tratti anche nostalgico.

***

Otto anni dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Letteratura, Mo Yan è tornato a fine luglio con il suo ultimo lavoro, "A Late Bloomer" (Sbocciare tardi).

Anche se sono passati 10 anni dal suo libro precedente, il celebre scrittore cinese ha detto di non aver mai smesso di scrivere.


    In una recente intervista con Xinhua, Mo ha espresso il desiderio di mantenere la creatività nella sua scrittura. Ha detto che gli scrittori di solito vincono il premio Nobel in tarda età e che la creatività spesso vacilla con l'età, sottolineando che il numero crescente di attività sociali e di impegni, così come la pressione che si accompagna al premio, possono ostacolare la scrittura. 


    Tuttavia l'autore cinese ha osservato che sono state anche create molte opere importanti dopo che uno scrittore è stato insignito del premio. "Non ho mai smesso di scrivere o di prepararmi per una nuova creazione negli ultimi otto anni", ha detto. 


    Nel suo nuovo libro, narrato in prima persona e composto da 12 storie, Mo scrive di "se stesso". "Queste storie proseguono il mio stile di scrittura, ma fondono nuovi elementi", ha detto.
    Questo modo di scrivere dà ai lettori un senso di realtà, qualcosa che Mo afferma di perseguire, anche se la maggior parte delle storie e delle figure del libro sono di fantasia. 


    Il titolo è un temine elogiativo per indicare le persone che "sbocciano tardi", nascondendo il loro talento in giovane età per poi brillare nella seconda metà della loro vita. 


    Dal punto di vista della letteratura e delle arti, Mo ha detto che per uno scrittore o un artista, maturare, irrigidirsi e restare immutato in giovane età presagisce la fine delle creazioni, mentre essere una persona che sboccia tardi significa avere uno spirito che persegue sempre l'innovazione e la trasformazione. "Vogliamo sempre dei cambiamenti nelle nostre opere. Vogliamo essere in grado di superare noi stessi e vogliamo mantenere la nostra vitalità nell'arte e la nostra capacità di creare".

venerdì 26 aprile 2024

REVIEW: LA NAVE DELLA NOTTE DI JESS KIDD, BOMPIANI EDITORE

La nave della notte 


 

INFANZIA PERDUTA SULLA BATAVIA,  IN TRATTI OMERICI, POI LA MORTE IMPROVVISA CHE SVELA IL REALE.

IN MEZZO AI FLUTTI E GIU' NEL PROFONDO.

LA DRAMMATICA RICERCA DEL SENSO DELL'ESISTENZA.  

LA MISURA EROICA. IL MITO DEGLI ARGONAUTI E IL CORAGGIO CHE SPINGE GLI UOMINI AD AMARE.

Si tratta di ascoltare con cura quel mare di umanità dal quale tutti siamo attraversati,  richiede empatia e desiderio ma che la nostra maschera e il nostro ego tendono a zittire. E' una fonte di umanità universale, alla quale attingere per scrivere. E' infinitamente più


grande di Jess Kidd, che abbia voce. Ma durante il processo di scrittura si è resa conto di avere portato in sè stessa il gene dell'innocenza, per tutta la vita. Come la maggior parte delle altre persone. Identificandosi in lui, Gill, è diventata il bambino capace di stupire. Liberatosi dalle zavorre, e perciò le limitazioni, che tutti gli adulti si trascinano dietro. Dalle nostre idee preconcette su come le cose dovrebbero essere, perchè seguiamo le leggi civili e religiose, oppure decidiamo di dare la priorità al denaro, al potere, alla famiglia o a qualcos'altro. 

In quegli anni per noi esisteva solo il presente che costruiva la nostra Storia – ora per ora ci lanciavamo nel mare della vita pieni di entusiasmo. Guardavamo solo davanti a noi.

La memoria è La nave della notte di Jess Kidd, Bompiani editore ed è il mare che «si gonfiava scuro come un sospiro, come un palpito del cuore».   La scrittrice irlandese Jess Kidd, si tuffa nella memoria quando nel 1628 scrive il suo romanzo Batavia, con la solita, ineguagliata sensibilità per la letteratura omerica. Basato su una storia vera, un romanzo storico che parla di fatalità e coraggio. E in queste sue pagine ci sono uomini, donne e bamnini e avventurieri, una natura incontaminata e potente, tratteggiata con passo omerico, il sogno, i primi amori,  cospiratori e la morte.

 Una sagoma scura solca le acque placide, o forse le sorvola. E' notte, una <<notte bluastra e profonda>>. Si tratta di una nave, <<silenziosa come una donna in amore, densa e pesante come sentenza pronunciata>>. Allucinazione collettiva, presagio infausto o ammonimento, la visione s'insinua nella vita di Mayken, una bambina alle prese con i cambiamenti dell’adolescenza e alla ricerca del padre. Accompagnata da Imke.  È la loro quotidianità che questa creatura racconta, perché conosce tutti loro: i segreti del passato, le verità non dette del presente e l’inevitabilità del futuro. Mentre Mayken affronta quella che potrebbe essere la fine, i ricordi della sua infanzia e una storia d’amore nascosta portano alla luce paure profonde. Sotto attacco da dentro, Mayken cerca di trovare un equilibrio e di tracciare i confini di un’instabile felicità. Ma il tempo e i corpi sono porosi e imprevedibili.

Questo è il primo anello di una catena di avvenimenti che porteranno i due protagonisti: Mayken (1628) e Gill (1989), ma soprattutto da ragazzi che, spensierati e cullati dai loro sogni, saranno travolti dalle tragedie. Verso destini diversi, avventure sbagliate invece, costelleranno tristemente la notte più buia. I protagonisti sono travolti nella morsa degli avvenimenti più grandi di loro, che inizialmente riescono a governare per poi soccombere sotto il loro peso gravoso. La morsa del mare sbatte contro la Batavia e

 dalle stelle pendevano raggi tremanti di luce che ogni tanto scivolavano come gocce spargendosi nell’immensità.

Ballano nell’ingenuità della prima età felice, anche grazie a una profonda musicalità che Jess Kidd riesce a plasmare tra le righe: 

desideravamo la bellezza non come fondamento per la felicità, bensì per raggiungere una pienezza più assoluta, fino all’immensità azzurra e lattiginosa in cui sono sospese le stelle.


Infanzia perduta e natura incontaminata

E' un romanzo sull’infanzia perduta, sugli ultimi bagliori dell’innocenza. In quegli anni per noi esisteva solo il presente che costruiva la nostra Storia – ora per ora ci lanciavamo nel mare della vita pieni di entusiasmo. Guardavamo solo davanti a noi.

 Per questi palpiti, La nave della notte,, che si divertono in una nave, in un giardino che pare l’Eden, dove il vento fa sbattere le vele e Maykene Gill,  ballano nell’ingenuità della prima età felice, anche grazie a una profonda musicalità che Jess Kidd riesce a plasmare tra le righe:

desideravamo la bellezza non come fondamento per la felicità, bensì per raggiungere una pienezza più assoluta, fino all’immensità azzurra e lattiginosa in cui sono sospese le stelle.

L'immagine tradizionale del mare fonte di vita, liquido amniotico che sprigiona energie positive, tende qui a rovesciarsi in quella di una forza arcaica che trascina verso il fondo, di un «groviglio torbido e liquido in cui passato e futuro sono indistinguibili» di un universo pieno di insidie, come quella della creatura, nascosto nei fondali, avvelena con il suo aculeo chi ne disturbi l'atavico torpore. E proprio i temi dell'incerto, dell'imprevedbile che fa deragliare l'esistenza dal suo solco sono gli elementi costitutivi della poeticadi Jess Kidd, il racconto di una serie di eventi orribili. tumultuosi, confusi e terrificanti.

Jess Kidd si muove tra diversi stili di scrittura e stati d’animo, in una vera e propria catabasi attraverso la nave/ventre del corpo umano che si fa racconto di luoghi spettacolari e al contempo spaventosi; la discesa in un abisso profondo che si trasforma in una celebrazione assoluta della vita.

La nave della notte s'immerge negli abissi più profondi e indicibili dell'animo umano scandagliado la complessità degli umani: ecosistemi instabili dove si trovano a coesistere la spontaneità dell'amore, il richiamo del sangue e la vischiosità dell'obbligo.

La nave della notte è la storia di un essere/nave/ventre inafferrabile che, lento e inesorabile, si aggira in un paesaggio affascinante: il corpo umano. Si ferma al suo interno, ne esplora gli organi, si moltiplica tra le cellule. Una creatura che racconta la topografia di un corpo/viaggio, da cui assorbe energia vitale tappa dopo tappa; avanza lungo gli argini delle sue vene, si riversa nei tessuti, scivola nelle anse dei capillari. Sfiora la trachea come i tasti di uno xilofono. Si diffonde implacabile. 

La nave della notte







GENERAZIONE BOOKTOK: GUARDA, LEGGO, VOLA SU BOOKTOK.

E' il fenomeno social più rilevante di queste ultime stagioni, tanto che se ne parlerà molto al Salone: la piattaforma dei video brevi, amata dai giovanissimi, è diventata uno strumento straordinario di diffusione della lettura. E non solo questo i Nativi digitali spiegano come rilanciare la rinascita di un libro pubblicato dieci anni prima?

NOI PARTIGIANI.NOI PARTIGIANI. CINQUE STORIE DAL MEMORIALE DELLA RESISTENZA ITALIANA.

 

AVEVO DUE PAURE
La prima era quella di uccidere
la seconda era quella di morire.
Avevo diciassette anni
poi venne la notte del silenzio
in quel buio si scambiarono le vite
incollati alle barricate alcuni di noi morivano d’attesa
incollati alle barricate alcuni di noi vivevano d’attesa
poi spuntò l’alba
ed era il 25 Aprile.

(Giuseppe Colzani, partigiano)

Il 25 aprile 1945 è il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, stabilendo, tra le altre cose, la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti, incluso Benito Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato tre giorni dopo, in seguito a un tentativo di fuga in Svizzera.

Un gesto che oggi non può essere raccontato al di fuori del contesto storico in cui è avvenuto, ovvero una Guerra Mondiale in cui le fucilazioni, le crudeltà e le uccisioni hanno superato di gran lunga la misura di un’etica che, in guerra, passa sempre in secondo piano. In questo contesto, la Resistenza italiana si inquadra nel più vasto movimento di opposizione al nazifascismo sviluppatosi in Europa, ma ha caratteristiche specifiche.

Resistenze

Si dovrebbe infatti parlare oggi di Resistenze, più correttamente, come spiega Laura Gnocchi, che ha ideato e sviluppato insieme a Gad Lerner e in collaborazione con l’ANPI, il progetto Noi Partigiani, Memoriale della Resistenza Italiana.

Da un punto di vista più burocratico, quella certificata è la resistenza armata, addestrata, a cui la qualifica è stata data con criteri prevalentemente militari. Ma noi oggi sappiamo che le forme di resistenza sono state tantissime: a partire dai familiari dei partigiani che sapevano e aiutavano come potevano; le donne che, liquidate come staffette, hanno costituito un fondamentale supporto logistico, fino ai militari che non si sono schierati con i tedeschi e sono stati internati. Dopo l’8 settembre sappiamo che sono stati arrestati circa 800mila soldati e alla Repubblica di Salò hanno aderito in 190/195mila” spiega Gnocchi.

Secondo i dati riportati dall’Anpi, è stato calcolato che i Caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), siano stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero combattendo almeno 40 mila uomini (10.260 furono i militari della sola Divisione Acqui, Caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40mila IMI (Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti.

Le donne partigiane combattenti

Le donne partigiane combattenti furono 35mila, e 70mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna. Tra esse, 4.653 furono arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare.

Durante la Resistenza le vittime civili di rappresaglie nazifasciste furono oltre 10mila. Altrettanti gli ebrei italiani deportati; dei 2000 di loro rastrellati nel ghetto di Roma e deportati in Germania se ne salvarono soltanto 11. Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nella valle tra il Reno e il Setta (tra Marzabotto, Grinzana e Monzuno), i soldati tedeschi massacrarono 7 partigiani e 771 civili e uccisero in quell’area 1830 persone. Per quella strage, soltanto nel gennaio del 2007 il Tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo dieci ex SS naziste.

Le persone dietro a una definizione

Ma quello che scompare, dietro a questi numeri, è che si trattava anzitutto di persone. Padri, madri, fratelli, sorelle, figlie e figlie, giovani e giovanissimi, che hanno rischiato la propria vita o l’hanno persa in nome della libertà. Per chi è nato dopo gli anni Novanta, il partigiano evoca un immaginario associato a una persona anziana che racconta. Ma i fatti che racconta, rimandano a un’epoca in cui il portatore (o la portatrice) della memoria poteva avere tra gli 11 e i 30 anni.

Prosegue Laura Gnocchi: “Io e Gad Lerner, non essendo storici, abbiamo avuto la libertà di narrare la storia dei partigiani e delle partigiane che abbiamo incontrato attraverso il loro vissuto, le loro emozioni senza l’obbligo di contestualizzare, raccontando soprattutto l’impatto emotivo degli eventi su persone che allora potevano essere giovanissime. Ragazzi e ragazze che scelsero, in un momento in cui erano appena adolescenti, da che parte stare. Questo progetto è nato per tramandare la memoria, ma anche per rendere omaggio a queste persone“.

L’archivio

Il prezioso archivio, avviato nel 2019 prima della pandemia Covid che ha falcidiato questa generazione, è ancora in divenire. Ha l’obiettivo di raccogliere il massimo numero di testimonianze dei protagonisti della Resistenza, comprese le molte rilasciate in precedenza e disseminate in vari archivi. Ha visto pubblicare due libri da Feltrinelli, un podcast, e soprattutto ha reso accessibili centinaia di volti di partigiane e partigiani con le loro storie di vita raccontate in prima persona.

Partiamo da qui, dunque, per onorare questa giornata. Partiamo dalle storie e dai volti di chi ha reso possibile la Liberazione, di chi ha dato un contributo fondamentale, di chi forse non aveva la potenza militare per vincere una guerra, ma aveva lo spessore civile per dare vita a una Repubblica e a una Costituzione che, ancora oggi, mostra il suo valore e la solidità dei principi che la reggono. Dall’Archivio curato da Laura Gnocchi e Gad Lerner, ecco le storie di alcuni partigiani e partigiane da non dimenticare.

Carlo Orlandini 
Nome di battaglia “Bingo”

Nato a Trento il 19 luglio 1927. Nel giorno in cui cadde Mussolini, 25 luglio 1943, aveva appena compiuto 16 anni e si trovava in campeggio a Bardolino, con altri ragazzi della sua età. Erano premilitari, come si diceva all’epoca, uno dei passaggi obbligati prima della chiamata alle armi che arrivava ai 21 anni. Racconta di una preparazione fisica e spirituale alla guerra che cominciava dall’età di 8 anni, prima con l’Opera Nazionale Balilla, poi con i Fasci giovanili di combattimento.

Successivamente da premilitare si passava ad avanguardista e tra gli impegni c’erano lunghi campi estivi come quello di Bardolino in quei giorni. Marce, addestramento, pulizia delle armi, alzabandiera. Alla notizia dell’arresto del Duce, Orlandini racconta di come cominciò a serpeggiare inquietudine nel campo, e il giorno dopo il comandante e il suo vice erano fuggiti. I ragazzi erano stati lasciati soli. Alcuni rientrarono a casa, ma Orlandini, assieme ad altri coetanei, decise di rimanere al campo e vedere cosa sarebbe successo. Vennero raggiunti da alcuni soldati tedeschi, una divisione delle SS che scendeva dal Brennero e si fermarono qualche giorno con loro. Una sera, davanti a un fuoco e dei bicchieri di vino, i soldati raccontarono di essere stati a Varsavia durante l’incursione al ghetto dove erano stati segregati gli ebrei. Il racconto delle crudeltà commesse da quel soldato, smosse la coscienza di Orlandini.

Pochi mesi dopo, con il proclama di Badoglio dell’8 settembre, il giovane lasciò la famiglia per salire su un treno (un treno che nella confusione di quei giorni italiani non sapeva letteralmente dove portasse) per prendere parte alla difesa con gli Alleati. Tra le varie missioni a cui prese parte, aiutò dei soldati francesi con divisa tedesca a disertare, fuggendo attraverso il Po. Fu arrestato dai fascisti, ma i sospetti su di lui non erano fondati su alcuna prova. E si salvò.

Marialucia Vandone (detta Cicci)

Quella di Cicci Vandone è una storia d’amore oltre che di lotta. Nata a Milano il 26 Febbraio 1923, ha partecipato alla Resistenza con il fidanzato Giorgio Paglia, “il Tenente Giorgio”, ucciso assieme ad altri sette compagni il 21 novembre 1944 e insignito di Medaglia d’oro. Nel 1940, Cicci era una ragazza piena di sogni e ambizioni. aveva appena concluso l’esame di maturità, aveva appena avuto l’esperienza del primo bacio e aveva ottenuto l’ammissione all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma.

A una festa conobbe Giorgio Paglia, allievo militare, originario di Bergamo. Fra i due fu colpo di fulmine e iniziarono a frequentarsi. Giorgio, come molti ragazzi della sua età, aveva dovuto interrompere gli studi per arruolarsi, ma soprattutto dopo l’armistizio cominciò a non fare troppo mistero del suo vero pensiero sulla guerra. In quei giorni i ragazzi in divisa che non combattevano con i tedeschi rischiavano di finire nei campi di lavoro in Germania, così Cicci e Giorgio si recarono alla Stazione Centrale con una sacca di vestiti civili e appena vedevano un ragazzo in divisa dall’aria smarrita, Giorgio lo trascinava in bagno, gli dava abiti e documenti e lo aiutava a scappare.

Nel 1944, di fronte alla scelta di arruolarsi nella Repubblica Sociale, Giorgio decise di fuggire in montagna e raggiungere i partigiani. Per diverso tempo i due non si videro, salvo una piccola incursione di Giorgio a Milano, già tradito e in pericolo. Raggiunse Cicci e le affidò una missione da staffetta che lei non esitò a raccogliere. Fu l’ultima volta in cui si videro. Pochi mesi dopo, fu catturato e fucilato.

Mario Candotto

Nato a Porpetto (UD) il 2 Giugno 1926, Mario Candotto era un operaio dei Cantieri navali di Monfalcone, e poi un partigiano deportato nel lager di Dachau. Quando si reca nelle scuole per raccontare quegli anni e lasciare la sua testimonianza, comincia il racconto con queste parole: “Quello che vi racconto è pura, pura verità. Ma se non l’avessi vissuto stenterei a crederci anch’io“.

La famiglia di Mario è stata falcidiata per l’impegno nella Resistenza. Due fratelli, morti in combattimento come partigiani. Il padre morto a Dachau, dove era stato deportato insieme a lui. La mamma morta ad Auschwitz, dove era stata deportata con le due sorelle di Mario, sopravvissute come lui.

Il primo della famiglia a fare i conti con il fascismo fu il fratello, arruolato nella guerra in Jugoslavia nel 1941, da cui tornò con un racconto che concluse con due parole: “Mi vergogno“. Dopo l’armistizio, stanchi della povertà causata dalle guerre volute dal regime e delle angherie subite come lavoratori, la maggior parte degli uomini, operai nelle fabbriche della zona, decise di coordinarsi per resistere all’occupazione tedesca e andare sulle montagne. Quella che si formò viene ricordata come la prima vera e propria brigata partigiana, di cui faceva parte anche Ondina Peteani, spesso segnalata come la prima staffetta partigiana. Ma la Brigata Proletaria, così autonominatasi, dovette soccombere pochi giorni dopo, male armata e male addestrata, in uno scontro con i nazisti a Gorizia.

I pochi sopravvissuti si rifugiarono in un paesino nel Carso, unendosi ai ben più organizzati partigiani sloveni. Nel frattempo, la soffiata di un compaesano portò uno squadrone fascista davanti alla casa dei Candotto, da cui portarono via molte persone, oltre ai Candotto, per deportarle. Mario arrivò al campo la notte del suo diciottesimo compleanno, e vi rimase per circa un anno. Una volta tornato, fu difficile per lui ritrovare serenità. Quando provava a raccontare la sua storia e i giorni nel campo, molti non gli credevano o lo liquidavano dicendo che ognuno aveva avuto le sue, in guerra. Fu per questo che decise di impegnarsi per tutta la vita a tramandare la sua testimonianza: affinchè non si perdesse il ricordo del sacrificio della sua famiglia in nome della libertà.

Maria Santiloni Cavatassi

Otto figli: un maschio e sette femmine. Per i genitori di Maria Cavatassi, contadini mezzadri, era difficilissimo farsi affidare un terreno, perchè con tutte quelle femmine si pensava che avrebbero reso troppo poco. Nei contratti di mezzadria, le donne venivano conteggiate meno della metà di un uomo. Perciò anche quando ottenevano un contratto, e dovendo accettare condizioni economiche durissime, la famiglia viveva in estrema povertà. Eppure non rimase insensibile alle ingiustizie che subivano altri sfortunati come loro.

Quando i partigiani e i soldati fuggiaschi cominciarono a presentarsi alla loro porta chiedendo aiuto, la famiglia decise tutta insieme di rispondere alla richiesta. Fu la madre a decidersi per prima, convincendo il padre, e insieme consultarono i figli, e tutti si assunsero la responsabilità del pericolo che avrebbero corso. Ospitarono due soldati fuggiaschi, nascondendoli in una grotta scavata dal padre di Maria, e diversi partigiani di passaggio. Condividevano il poco cibo che avevano, e tutti dormivano su assi di legno e pagliericci, nessuno aveva un materasso.

Quando la guerra finì, per Maria cominciò una nuova vita in cui mise a frutto ciò che aveva imparato con la Resistenza e l’importanza di lottare contro le ingiustizie. Giovanissima (non aveva ancora vent’anni) e senza titoli di studio, si unì alle lotte sindacali contadine, fino a diventare responsabile di Federmezzadri, con cui riuscì a strappare un contratto più dignitoso per i mezzadri. Sposò poi un funzionario del Partito Comunista e partecipò alla fondazione dell’Udi, Unione delle Donne Italiane.

Gustavo Ottolenghi
Nome di battaglia “Robin”

Nel 1943, Gustavo aveva solo 11 anni. la sua famiglia era di origine ebraica e suo padre, che era vicecomandante della Polizia a Torino, con le leggi razziali era stato estromesso dal suo lavoro. Per sfuggire ai bombardamenti, la sua famiglia si era rifugiata nel Monferrato. Quando, dopo l’armistizio, i rastrellamenti si fecero sempre più capillari e crudeli, i suoi genitori presero una difficile decisione: “Se ci trovano insieme ci portano via e ci ammazzano. Tutti e tre. Dobbiamo dividerci“, disse suo padre. Così ogni membro della famiglia si unì a una diversa brigata partigiana, e il piccolo Gustavo fu affidato a dei partigiani del Monferrato amici dei suoi genitori.

Con loro, Gustavo svolse il compito della vedetta, in cima ai campanili o alle torri, oppure trasportò messaggi infilati dentro ai tacchi dei suoi zoccoli di legno. Nel frattempo, si preparò a superare l’esame di fine anno scolastico, aiutato dai giovani partigiani, molti dei quali laureati. Venne condotto da loro a Torino, per superare l’esame, e quando durante l’appello il suo nome suscitò un certo scompiglio, capì di non doversi far riconoscere. Un professore, per lui sconosciuto, lo portò fuori dall’aula, gli scrisse sul libretto “promosso” e lo incitò a fuggire. Gli aveva salvato la vita.

Poi venne il 25 aprile, e Gustavo, con la divisione Monferrato cui era stato affidato, rientrò a Torino per i festeggiamenti. Ricordò le parole di suo padre: “Quando tutto sarà finito, ci ritroveremo al monumento del Duca d’Aosta“. Il piccolo Gustavo cominciò a recarsi lì, un giorno dopo l’altro, chiedendosi se i suoi genitori fossero ancora vivi come lui. Il terzo giorno, lo raggiunse suo padre. Il quarto giorno arrivò la madre. “Eravamo di nuovo tutti e tre insieme, come davanti al tavolo della cucina. Non dovevamo più scappare però. Eravamo liberi“.

***

Le storie sono tratte dal libro “Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana”, di Laura Gnocchi e Gad Lerner, Feltrinelli 2020.
La versione per ragazzi: “Noi, ragazzi della libertà. I partigiani raccontano”, a cura di Laura Gnocchi e Gad Lerner, illustrazioni di Piero Macola, Feltrinelli 2021.
Le foto e le video-testimonianze sono reperibili nel sito del progetto.
La foto usata per la copertina, appartiene al partigiano Luigi Scanferlato, nome di battaglia “Gigi”.

ARTICOLO PER GIORNALE O RIVISTA. DONNE E RESISTENZA. UN'EMANCIPAZIONE DI FATTO DAI RUOLI TRADIZIONALI.

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“Non sono venuta per rammendare, ma per combattere”. La partigiana Olga Prati, quando raggiunge la brigata d’azione del suo territorio, risponde così al comandante che le chiede di ricucirgli i pantaloni. Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana e vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica), ruba di nascosto una pistola su un autobus affollato per aggirare l’opposizione dei suoi stessi compagni nel “concederle” l’utilizzo di un’arma.

Come dimostrano le testimonianze delle partigiane, di cui Prati e Capponi sono esempi, quello delle donne alla Resistenza non è stato semplicemente “un contributo” ma una lotta “doppia” che riguardava sia l’opposizione all’autoritarismo nazifascista che la conquista di nuovi spazi di libertà, oltre gli schemi imposti da un regime che le aveva relegate nella sfera familiare e domestica. Operaie, studentesse, casalinghe, insegnanti: sono donne di ogni estrazione sociale che aderiscono consapevolmente alla lotta resistenziale e, come riporta la storica Anna Bravo in “Dizionario della Resistenza”, assumono un ruolo essenziale “nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell’organizzazione sanitaria e ospedaliera, nei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà”.

Il protagonismo femminile nella Resistenza ha riguardato sia la lotta armata che tutti gli altri compiti previsti dalla lotta di Liberazione nelle sue varie modalità. Le partigiane non sono “solo” staffette ma anche combattenti armate nelle bande extra-urbane, addette ai fondamentali servizi logistici, militanti attive dei Gruppi di difesa creati dalle donne e per le donne che – specifica Bravo – sulla scorta di un “programma di affermazione di diritti e opportunità” rivendicano la “titolarità delle azioni femminili”.

La Resistenza taciuta

La Resistenza delle donne, come racconta l’omonimo saggio di Benedetta Tobagi (Premio Campiello 2023) le porta a “irrompere” nella sfera pubblica. “Tocca alle invisibili entrare in scena”, scrive Tobagi.

I dati forniti dall’ANPI lo testimoniano: furono 35.000 le partigiane inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania.

Ciò nonostante, il riconoscimento delle partigiane nella Resistenza non è avvenuto in egual misura al loro protagonismo: le donne che hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni sono state solo diciannove (Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu).

Escluse prima dalle sfilate partigiane nelle città liberate e poi dalla storiografia, il ruolo delle donne nella Resistenza è rimasto a lungo nell’ombra. Lo ha riportato in diversi testi, tra cui cui “Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80”, la storica Simona Lunadei: dopo la fine della guerra sulla resistenza femminile è calato un silenzio generale. Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne che avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali.

È il pregiudizio culturale che ha guidato il silenzio. Perché? Lo spiega ad Alley Oop Tamara Ferretti, responsabile del coordinamento nazionale donne ANPI: “il silenzio sulla Resistenza delle donne accade a causa dei fattori culturali di una società che per decenni le aveva relegate alla marginalità, senza diritti civili e – per dirla con le parole di Giovanni Gentile – di proprietà del marito: ‘Nella famiglia la donna è del marito ed è quel che è in quanto di lui’. Questa visione è stata messa in crisi dalla guerra e dalla partenza degli uomini per il fronte, perché incongruente con le necessità della produzione bellica e il conseguente massiccio ingresso nel sistema produttivo di forza lavoro femminile”.

È così che le donne prendono spazio, iniziando a partecipare da subito – in varie forme – alla Resistenza e alla lotta di liberazione, di cui il famoso sciopero del pane del 16 ottobre del 1941 rappresenta il primo esempio. “La rimozione del ruolo delle donne nella Resistenza ha corrisposto specularmente ai reiterati tentativi di depotenziare e manomettere il valore della lotta di liberazione nella conquista della libertà e della democrazia di questo Paese – sottolinea Ferretti – Sottovalutazioni e condizionamenti culturali ci sono stati anche nel mondo resistenziale, maggiormente impegnato nel riconoscimento dell’unicità e della pluralità della Resistenza nel suo complesso”.

Diventare “soggetti politici visibili”

Emergere dall’anonimato ha consentito alle donne di diventare soggetti storici finalmente visibili. Essere contro il fascismo significava non solo schierarsi politicamente, ma anche rompere con la separatezza della propria tradizionale “sfera domestica” per proiettarsi sulla scena pubblica.

“Nelle città come nelle campagne le donne svolsero un ruolo fondamentale nell’organizzazione clandestina e, nelle memorie dei partigiani, è costante il richiamo al ruolo fondamentale delle donne per garantire i collegamenti tra le formazioni, il supporto che oggi chiameremmo logistico, l’assistenza alimentare e sanitaria, l’informazione sulla dislocazione militare nazifascista nel territorio – afferma Ferretti – Le ragioni di fondo che hanno mosso la scelta di tante donne di aderire alla Resistenza sono derivate dal desiderio di pace e di riscatto. Come scrive la Partigiana Mirella Alloisio nel libro Volontarie della Libertà, le donne decisero di fare la Resistenza perché volevano fare guerra alla guerra. Eppure di queste motivazioni si è parlato poco, nel silenzio è stata lasciata anche quella che Nilde Iotti definiva l’irrinunciabile speranza nel futuro che aveva animato le scelte di libertà e di democrazia”.

Recuperare le storie non raccontate diventa essenziale per recuperare la memoria: “È bello e importante far conoscere alle giovani e ai giovani, a partire dalle scuole, le tante storie di donne che si sono battute per la libertà ed è quello che come ANPI e come Coordinamento donne da tempo siamo impegnate a fare” specifica Ferretti, ricordando anche Liliana Segre: “deportata nell’inferno dei campi di concentramento nazisti, sopravvisse a una delle marce della morte imponendosi di compiere un passo dopo l’altro: passo dopo passo è anche la storia della liberazione delle donne di cui tutte dovremmo avere profonda consapevolezza e coscienza perché i diritti non sono dati una volta per sempre ma vanno accuditi e salvaguardati come un bene prezioso”.

Le partigiane di oggi

Con l’iniziativa “Libere di essere. Donne resistenti ieri e oggi”, lo scorso novembre l’ANPI ha lanciato una rete per i diritti delle donne. Gli stessi che legano le partigiane di ieri a quelle di oggi: “Viviamo un tempo difficile e viene immediato rivolgere il pensiero alle battaglie delle giovani iraniane come alla resilienza delle donne afghane e dei tanti Paesi martoriati dalle guerre – aggiunge la responsabile del coordinamento nazionale donne ANPI – È da brividi pensare oggi alla condizione delle donne e delle bambine che vivono in Paesi in guerra e sotto le bombe, alle donne e alle bambine di Gaza come a quelle ucraine, del Myanmar o del Congo, a quelle che attraversano il deserto e vengono rinchiuse nei campi libici. Donne che nonostante tutto si battono e continuano a sperare in un futuro migliore, per il riscatto da condizioni di miseria, di paura, di violenze, di umiliazioni, di guerra. Le stesse motivazioni che portarono la gran parte delle donne italiane a sostenere la Resistenza”.

Il cammino delle donne è “il cammino della democrazia”

La battaglia per essere “libere di essere” si muove nel tempo e nelle generazioni: “La conquista della democrazia e la conquista della cittadinanza politica, il diritto di voto, sono state il presupposto per il riconoscimento del valore di una rappresentanza di genere e per il riconoscimento della cittadinanza sociale, cioè dei diritti uguali di cui ci parla la Costituzione” spiega Ferretti. Così come la nascita della Repubblica segnò anche la “visibilità” politica delle donne, oggi è lo stesso testo costituzionale a tutelarla – “la Costituzione è un faro che continuerà a illuminare il cammino delle donne per il riconoscimento di una reale parità” sostiene Ferretti – e a indicare la via della Resistenza attuale: difendere e celebrare la Repubblica antifascista, come indica l’appello “Viva la Repubblica antifascista” lanciato da ANPI per il 25 aprile.

“Il 25 aprile è il giorno in cui si ritrova nelle piazze di tutte le città, a cominciare da Milano, l’Italia antifascista e democratica” afferma ad Alley Oop il presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo, che continua: “sta alle forze democratiche proporre una promessa di futuro, cioè un programma di trasformazione che abbia al centro il contrasto alle diseguaglianze nel più generale quadro di investimenti che consentano di affrontare la transizione digitale ed ecologica”. Per questo, serve partecipare: “il 25 aprile mi aspetto straordinaria partecipazione popolare unitaria – dice il presidente ANPI – a tutela della democrazia costituzionale, della pace e del lavoro: fondamenti costituzionali”. E le donne non posso che esserne protagoniste: “come sosteneva la partigiana Carla Nespolo –  aggiunge Ferretti – Il cammino delle donne è stato il cammino della democrazia. Per il nostro Paese e per l’Europa”.

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IL DELITTO MATTEOTTI. SALVATE IL SOLDATO BENITO.


Il delitto Matteotti. E' un pò singolare, rievocando un delitto politico, dare addosso alla vittima. E nel caso di Giacono Matteotti risulta anche fuorviante. Il deputato socialista ucciso nel 1924 nel corso di un agguato diretto. Gli esecutori dell'omicidio sono descritti come rozzi, ignoranti e scalcagnati, ma non può smentire ciò che conta, i loro legami con due membri del quadrumvirato che reggeva all'epoca il Partito fascista: Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa di Benito Mussolini, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf. Che poi i sicari si siano rivelati malestri non muta la natura politica del crimine: anche l'esercito italiano diede in Grecia pessima prova di sè, ma ciò non toglie che si trattasse di una guerra di aggressione. La parte più discutibile del libro è però la prefazione in cui Aldo A. Mola sostiene che l'eccessiva campagna di stampa avviata dall'opposizione dopo il delitto (che volete che sia la morte violenta di un segretario di partito?) <<costrinse>> Mussolini a instaurare la dittatura. E' lo strano modo di presentare la storia del fascismo per cui il Duce non avrebbe responsabilità di nulla, sarebbe sempre stato obbligato dalle circostanze. Costretto a imbavagliare la stampa, a sciogliere i partiti, a imprigionare gli oppositori, adallearsi con Hiltler, a emanare le leggi razziali, a entrare in guerra nel 1940, a fondare la Rsi nel 1943. Lui, pover'uomo, non voleva. Così Mussolini, che pure non era privo di determinazione, diventa un fuscello trascinato dal vento, un grottesco burattino senza fili. Non merita questo oltraggio. Salvate il soldato Benito.

Libro di Enrico Tiozzo, BastogiLibri, pp.724, Euro 30.



ARTICOLO PER GIORNALE O RIVISTA - LA DRAMMATICA RICERCA DEL SENSO DELL'ESISTENZA.

 


INFANZIA PERDUTA SULLA NAVE  IN TRATTI OMERICI, POI LA MORTE IMPROVVISA CHE SVELA IL REALE.

                                  IN MEZZO AI FLUTTI E GIU' NEL PROFONDO

 

 

LA DRAMMATICA RICERCA DEL SENSO DELL'ESISTENZA

LA MISURA EROICA. IL MITO DEGLI ARGONAUTI E IL CORAGGIO CHE SPINGE GLI UOMINI AD AMARE.

Si tratta di ascoltare con cura quel mare di umanità dal quale tutti siamo attraversati,  richiede empatia e desiderio ma che la nostra maschera e il nostro ego tendono a zittire. E' una fonte di umanità universale, alla quale attingere per scrivere. E' infinitamente più grande di Jess Kidd, che abbia voce. Ma durante il processo di scrittura si è resa conto di avere portato in sè stessa il gene dell'innocenza, per tutta la vita. Come la maggior parte delle altre persone. Identificandosi in lui, Gill, è diventata il bambino capace di stupire. Liberatosi dalle zavorre,

Si tratta di ascoltare con cura quel mare di umanità dal quale tutti siamo attraversati,  richiede empatia e desiderio ma che la nostra maschera e il nostro ego tendono a zittire. E' una fonte di umanità universale, alla quale attingere per scrivere. E' infinitamente più grande di Jess Kidd, che abbia voce. Ma durante il processo di scrittura si è resa conto di avere portato in sè stessa il gene dell'innocenza, per tutta la vita. Come la maggior parte delle altre persone. Identificandosi in lui, Gill, è diventata il bambino capace di stupire. Liberatosi dalle zavorre, e perciò le limitazioni, che tutti gli adulti si trascinano dietro. Dalle nostre idee preconcette su come le cose dovrebbero essere, perchè seguiamo le leggi civili e religiose, oppure decidiamo di dare la priorità al denaro, al potere, alla famiglia o a qualcos'altro.  

Infanzia perduta e natura incontaminata

In quegli anni per noi esisteva solo il presente che costruiva la nostra Storia – ora per ora ci lanciavamo nel mare della vita pieni di entusiasmo. Guardavamo solo davanti a noi.

La memoria è La nave della notte di Jess Kidd, Bompiani editore ed è il mare che «si gonfiava scuro come un sospiro, come un palpito del cuore».   La scrittrice irlandese Jess Kidd, si tuffa nella memoria quando nel 1628 scrive il suo romanzo Batavia, con la solita, ineguagliata sensibilità per la letteratura omerica. Basato su una storia vera, un romanzo storico che parla di fatalità e coraggio. E in queste sue pagine ci sono uomini, donne e bamnini e avventurieri, una natura incontaminata e potente, tratteggiata con passo omerico, il sogno, i primi amori,  cospiratori e la morte.

 Una sagoma scura solca le acque placide, o forse le sorvola. E' notte, una <<notte bluastra e profonda>>. Si tratta di una nave, <<silenziosa come una donna in amore, densa e pesante come sentenza pronunciata>>. Allucinazione collettiva, presagio infausto o ammonimento, la visione s'insinua nella vita di Mayken, una bambina alle prese con i cambiamenti dell’adolescenza e alla ricerca del padre. Accompagnata da Imke.  È la loro quotidianità che questa creatura racconta, perché conosce tutti loro: i segreti del passato, le verità non dette del presente e l’inevitabilità del futuro. Mentre Mayken affronta quella che potrebbe essere la fine, i ricordi della sua infanzia e una storia d’amore nascosta portano alla luce paure profonde. Sotto attacco da dentro, Mayken cerca di trovare un equilibrio e di tracciare i confini di un’instabile felicità. Ma il tempo e i corpi sono porosi e imprevedibili.

Questo è il primo anello di una catena di avvenimenti che porteranno i due protagonisti: Mayken (1628) e Gill (1989), ma soprattutto da ragazzi che, spensierati e cullati dai loro sogni, saranno travolti dalle tragedie. Verso destini diversi, avventure sbagliate invece, costelleranno tristemente la notte più buia. I protagonisti sono travolti nella morsa degli avvenimenti più grandi di loro, che inizialmente riescono a governare per poi soccombere sotto il loro peso gravoso. La morsa del mare sbatte contro la Batavia e

 dalle stelle pendevano raggi tremanti di luce che ogni tanto scivolavano come gocce spargendosi nell’immensità.

Ballano nell’ingenuità della prima età felice, anche grazie a una profonda musicalità che Jess Kidd riesce a plasmare tra le righe: 

desideravamo la bellezza non come fondamento per la felicità, bensì per raggiungere una pienezza più assoluta, fino all’immensità azzurra e lattiginosa in cui sono sospese le stelle.


 

Infanzia perduta e natura incontaminata

 E' un romanzo sull’infanzia perduta, sugli ultimi bagliori dell’innocenza: 

In quegli anni per noi esisteva solo il presente che costruiva la nostra Storia – ora per ora ci lanciavamo nel mare della vita pieni di entusiasmo. Guardavamo solo davanti a noi.

 

Per questi palpiti, La nave della notte,, che si divertono in una nave, in un giardino che pare l’Eden, dove il vento fa sbattere le vele e

 

dalle stelle pendevano raggi tremanti di luce che ogni tanto scivolavano come gocce spargendosi nell’immensità.

Maykene Gill,  ballano nell’ingenuità della prima età felice, anche grazie a una profonda musicalità che Jess Kidd riesce a plasmare tra le righe:

desideravamo la bellezza non come fondamento per la felicità, bensì per raggiungere una pienezza più assoluta, fino all’immensità azzurra e lattiginosa in cui sono sospese le stelle.

L'immagine tradizionale del mare fonte di vita, liquido amniotico che sprigiona energie positive, tende qui a rovesciarsi in quella di una forza arcaica che trascina verso il fondo, di un «groviglio torbido e liquido in cui passato e futuro sono indistinguibili» di un universo pieno di insidie, come quella della creatura, nascosto nei fondali, avvelena con il suo aculeo chi ne disturbi l'atavico torpore. E proprio i temi dell'incerto, dell'imprevedbile che fa deragliare l'esistenza dal suo solco sono gli elementi costitutivi della poeticadi Jess Kidd, il racconto di una serie di eventi orribili. tumultuosi, confusi e terrificanti.

Jess Kidd si muove tra diversi stili di scrittura e stati d’animo, in una vera e propria catabasi attraverso la nave/ventre del corpo umano che si fa racconto di luoghi spettacolari e al contempo spaventosi; la discesa in un abisso profondo che si trasforma in una celebrazione assoluta della vita.

La nave della notte s'immerge negli abissi più profondi e indicibili dell'animo umano scandagliado la complessità degli umani: ecosistemi instabili dove si trovano a coesistere la spontaneità dell'amore, il richiamo del sangue e la vischiosità dell'obbligo.

La nave della notte è la storia di un essere/nave/ventre inafferrabile che, lento e inesorabile, si aggira in un paesaggio affascinante: il corpo umano. Si ferma al suo interno, ne esplora gli organi, si moltiplica tra le cellule. Una creatura che racconta la topografia di un corpo/viaggio, da cui assorbe energia vitale tappa dopo tappa; avanza lungo gli argini delle sue vene, si riversa nei tessuti, scivola nelle anse dei capillari. Sfiora la trachea come i tasti di uno xilofono. Si diffonde implacabile.





 

 




mercoledì 24 aprile 2024

I LIBRI PARLANO DEL MONDO CHE VOGLIAMO.

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I libri parlano del mondo che vogliamo.


POST N.2 DI MERCOLEDI', 24 APRILE 2024.

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Non osate chiudere le parole in gabbia.  

Mi chiedo se tu abbia mai avuto quest'esperienza, di un'affinità che si percepisce al di là della lingua, e che significato hanno per te le affinità?

domenica 21 aprile 2024

REVIEW: L'UNITA' DI NINNI HOLMQVIST, FAZI.

GLI INDISPENSABILI VIVONO, GLI ALTRI ... SOCIOLOGIA DISTOPICA.

La dsitopia o utopia negativa è un termine usato a partire dagli inizi del Novecento per indicare quei romanzi fantapolitici che immaginano un futuro nefasto: L'Unità di Ninni Holmqvist. Già pubblicati cito: Il tallone di ferro di Jack London (1908) e il Racconto dell'ancella di Margareth Atwood (1985), passando per Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932). . Incubi che mettono in guardia dal persistere nell'errore e spingono a prendere provvedimenti. Lo scopo delle distopie è proprio quello di evitare che le condizioni immaginate si realizzino. Hanno, insomma, una funzione deterrente. 

Così una sociologia distopica, passando dal piano letterario a quello scientifico, dipinge società indesiderabili da cui rifuggire, proiettando la criticità del presente nel futuro immediato, amplificandone gli efffetti negativi, sempre partendo da preoccupanti tendenze o segnali preesistenti.

Tra questi prevale il timore per una tecnologia incontrollabile. Vi sono serie possibilità che ill genere umano diventi superfluo. E c'è chi arriva a formulare una vera e propria collassologia, come in Convivere con la catastrofe (Treccani, 2021) di Pablo Servigne e Raphael Stevens, con postfazione di yves Cochet, dove si preconizza addirittura il crollo del sistema mondiale.

Siccome anche le analisi sociologiche, quando sono catastrofiche, hanno lo scopo di mettere in guardia dal proseguire lungo una strada impervia, producono sensibili effetti in ambito personale, e politico-economico. nelle persone, già perplesse per le difficoltà attuali, radicalizzano la sfiducia in ogni iniziativa progettuale che dovrà scontrarsi con le avversità prefigurate. 

Sul piano comportamentale sono motivo di indifferenza, chiusura verso l'esterno e ripiegamento di ogni energia nella routine del presente. Il futuro, visto attraverso la lente distopica, è un corpo oscuro entro il quale è meglio non avventurarsi: come nel romanzo di nel romanzo di Ninni Holmqvist, L’Unità - Fazi.

Dorrit sta per compiere cinquant'anni. E' una scrittrice e vive in una casa che deve ristrutturarla. Però è vicina al mare, a una grande spiaggia dove regolarmente va a correre con Jock, il suo cane. E' con lui che divide la vita e lo rende partecipe di gioie e apprensioni. E' in una di quest'ultime che la incontriamo, la peggiore, sì perchè in Svezia, dove si svolge il romanzo di Ninni Holmqvist, cè una legge davvero implacabile: le donne che hanno superato i cinquanta e gli uomini che hanno superato i sessanta e non hanno avuto figli vengono considerati i dispensabili e deportati in "unità" di gran lusso, quasi delle fortezze, dove ogni desiderio può essere esaudito.

Ognuno ha la sua casa (tuute senza finestra), può mangiare in ristoranti di lusso, avere i vestiti che vuole, gioielli, cinema, teatro, concerti, palestre, piscine, istruttori. Di ogni cosa, qui, nell'Unità c'è il meglio che si possa desiderare. Eppue Dorrit questa deportazione la patisce molto. E non solo perchè è forzata, ma perchè non è gratuita. Anzi, ci sarà da pagare un prezzo altissimo.

Fin dai primi giorni di adattamento verrà aiutata dai veterani, ma poi nella vita, ci si deve abituare da sola. Anche ad avere gli anni contati. Certo in queste strutture che sembrano un 'eterna estate, c'è il meglio. I primi giorni Dorrit fa fatica ad abituarsi. Scoprirà ben presto che per tutto quel lusso c'è un prezzo da pagare. E' un programma approvato dalla legge democratica del Paese. I dispensabili non hanno gli stessi diritti degli altri, gli indispensabili. Anzi, una parte della loro vita, la consacreranno a loro, a chi a messo su famiglia, facendosacrifici e magari, a un certo punto, avendo qualche problema di salute, intervengono con cure ed esperimenti scientifici su umani. I più fortunati come Dorrit accettano gli allenamenti fisici estenuanti, piuttosto che diventare una cavia. 

Alla fine viene svelato il grande scopo dell'Unità: donare i propri organi fino alla fine dei propri giorni. I beneficiari sono persone molto malate, ma che sono indispensabili per le loro famiglie. Loro, solo hanno il diritto alla vita. Questo è il vero scopo dell'Unità, mandare avanti una società dove la produzione, in ogni sua forma, è il  valore supremo. 

Il vero collante dell'Unità è la paura. La vita di Dorrit continua anche in un inferno come quello dell'Unità. La protagonista in seguito si innamora: il terrore genera un attaccamento alla vita così intenso da produrre un'energia perduta. E' a questo punto che la bravura dell'autrice applica il  cambamento.  rivoluziona le decisioni. Ma ci riuscirà anche qui, nel regno dei non morti?

Ninni Holmqvist

L’Unità

Titolo originale: Enhet
Collana: Le strade
Numero collana: 569
Pagine: 276 - Prezzo cartaceo: € 18,50
Data pubblicazione: 09-04-2024 

Traduzione di Margherita Podestà Heir

Un giorno di inizio primavera Dorrit, scrittrice cinquantenne single e senza figli, viene accompagnata all’Unità. D’ora in avanti vivrà lì. Quello che la accoglie è un luogo idilliaco, almeno in apparenza: una struttura all’avanguardia dotata di eleganti appartamenti immersi in splendidi giardini, dove vengono serviti elaborati pasti gourmet e ci si può dedicare alle più svariate attività. I residenti sono accomunati da una caratteristica: non hanno figli né una vita sentimentale stabile. Finalmente libera dal giudizio sociale che ha sempre percepito come un peso, Dorrit è felice di poter fare amicizia con persone come lei. Ma c’è un prezzo da pagare: gli ospiti dell’Unità, chiamati “i dispensabili”, si trovano lì per un motivo ben preciso. Faranno da cavie per una serie di test farmacologici e psicologici, per cominciare, e poi doneranno i loro organi, uno per uno, fino alla cosiddetta “donazione finale”. Anche loro, così, saranno utili alla società: si sacrificheranno per chi, nel mondo fuori, è genitore. Dorrit è rassegnata al suo destino e desidera soltanto trascorrere i suoi ultimi giorni in pace, ma presto incontra un uomo di cui si innamora follemente, e l’inaspettata felicità da cui è travolta la costringe a ripensare ogni cosa.
Nel suo romanzo d’esordio la svedese Ninni Holmqvist, una narratrice formidabile, immagina un mondo lontano eppure pericolosamente vicino. L’Unità, considerato un classico moderno e già molto apprezzato in patria e all’estero, racconta una storia vivida, commovente e attualissima, che racchiude un’acuta riflessione sulla società odierna e l’identità femminile.

«L’Unità mi è piaciuto moltissimo. Sono sicura che ne rimarrete incantati, come è successo a me».
Margaret Atwood

«Riecheggiando l’opera di Marge Piercy e Margaret Atwood, L’Unità è un romanzo che fa riflettere, ma anche una lettura compulsiva».
Jessa Crispin, «NPR»

«Con questo libro, da scrittrice di racconti incredibilmente talentuosa Holmqvist si è trasformata in una maestra del romanzo. Non mi sorprenderebbe se L’Unità diventasse uno – forse l’unico – dei pochi romanzi svedesi di questa stagione che la gente leggerà ancora tra cinquant’anni».
«Smålandsposten»

«Un romanzo d’esordio sorprendente. Scorrevole e ipnotico, offre una testimonianza impressionante sul modo in cui la società svaluta la creazione artistica, mentre celebra la procreazione, e una speculazione su cosa potrebbe succedere se tutto questo fosse portato all’estremo. Per i fan di Orwell e Huxley».
«Booklist»

 

REVIEW: IO CHE NON HO CONOSCIUTO GLI UOMINI DI JACQUELINE HARPMAN, BLACKIE EDIZIONI

 LA SCELTA DELLA CASTITA' RIACCENDE IL DESIDERIO

Il romanzo s'intitola Io che non ho conosciuto gli uomini, il che fa intendere la voglia che non c'è, sparita, cancellata, sospesa e, di conseguenza, la castità, non imposta, non prescritta da una morale religiosa. Se ne deve dedurre, perciò, che è proprio la castita che ha richiamato i lettori e le lettrici, uno status, cioè, che nel clima massimamente erotizzato nel quale viviamo, appare innominabile se non addirittura scadaloso: e sta forse proprio in questo capovolgimento dei "valori". Nel romanzo l'autrice racconta, cosa significhi una carezza per un corpo che da anni se ne è privato. E un'altra cosa ancora sostiene: a riconscere dallo sguardo, dall'atteggiamento, dal modo di essere le sue consorelle e, forse anche, i suoi confratelli in castita. Ovviamente le "manipolazioni" non cessano, fanno l'effetto di un gesso che stride sulla lavagna o peggio, della lama di un coltello strisciata su una lastra di vetro. E ogni volta che dice no, incontra nella controparte stupore, incomprensione, sarcasmo, a volte anche compatimento. Simili sentimenti li trova però anche presso le donne, presso le amiche, quando le informa della sua inconsueta scelta. Il libro perciò indugia ripetutamente contro chi non capisce, contro chi non è disposto ad andare controcorrente. 

€18,90 

Io che non ho conosciuto gli uomini

Jacqueline Harpman

Blackie edizioni

In un bunker sotterraneo, trentanove donne sono tenute in isolamento in una cella. Sorvegliate da violente guardie, non hanno alcuna memoria di come sono arrivate lì, nessuna nozione del tempo, solo un vago ricordo delle loro vite precedenti.

Mentre il ronzio della luce elettrica fonde il giorno con la notte e gli anni passano, una ragazza – la quarantesima prigioniera – siede sola ed emarginata in un angolo.

Questa misteriosa ragazza che non ha conosciuto gli uomini sarà la chiave per la fuga e la sopravvivenza delle altre nel mondo desolato che le attende in superficie.

***

«Un libro con l’atmosfera di un sogno, che suscita nel lettore emozioni intense e profonde.» Le Monde

«Un piccolo miracolo.» The New York Times

***

Traduzione di Sara Clamor

 

venerdì 19 aprile 2024

POST N.9 DEL 19 APRILE 2024

Come spiegate il paradosso di un larghissimo numero di autori e di un numero limitato di lettori?

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POST N.8 DEL 19 APRILE 2024

L'uso dei social network rientra per voi in quello che prima chiamavo il rumor di fondo dell'epoca o si tratta di un canale praticabile per la parola poetica?

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POST N.7 DEL 19 APRILE 2024.

Sentite il vostro lavoro di scrittura accolto dal nostro tempo o percepite come connaturato dalla sorte dal peso di un'epopea di esilio del presente?

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POST N.6 DEL 19 APRILE 2024.

Che armi ha la poesia contro il male della Storia, della Natura? La sua testimonianza cambia qualcosa?

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POST N.5 DEL 19 APRILE 2024.

Nella mia esperienza la scrittura poetica nasce prima di tutto da una necessità, da una sorta di appello che ci viene rivolto e al quale si deve corrispondere, persino si deve obbedire. Quanto conta, è come precisereste, la vostra consuetudine con l'spiraione?

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POST N.3 DEL 19 APRILE 2024.

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Usare la lingua in poesia vuol dire spogliarla e intensificarla. Un poeta di oggi sente il rumore di fondo dell'epoca e quali sono i meccanismi che nella scrittura si mettono in moto per disinnescare i disturbi di una lingua sclerotizzata, di parte, intrisa d'odio o di banalità?

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POST M.4 DEL 19 APRILE 2024.

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C'è un grande tema per ogni artista e in particolare per ogni scrittore: la tradizione. Scrivere significa per voi anche effettuare delle scelte dentro quest'organismo vivente?

POST N.2 DEL 19 APRILE 2024.

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La mia nascita è quando dico un "tu". 

Chi è il lettore che vi immaginate? 

Chi è il "tu" a cui vi rivolgete?

POST N.1 DEL 19 APRILE 2024

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Siete scrittori. Come vivete dentro il laboratorio della vostra ricerca il momento di rendere la parola altrui e quanto questa pratica nutre la vostra personale voce?

REVIEW: SE IL ROMANZO NASCE DALLA RISATA DI DIO.

Se il romanzo nasce dalla risata di Dio

Da I Libri di Jakub di Olga Tokarczuk a La doppia vista di Roberto Pazzi a L’arte del romanzo: tre titoli per definire il presente

«L’uomo pensa, Dio ride». Questa massima ebraica è contenuta ne L’arte del romanzo, riedito da Adelphi (traduzione di Ena Marchi, pagg. 168, € 12,00) lo scorso anno per celebrare la scomparsa di Milan Kundera. Lo scrittore ceco che avrebbe meritato il Nobel, amava immaginare che Francois Rabelais avesse udito un giorno la risata del creatore, e che fosse nata in quel frangente l’idea del primo grande romanzo europeo: «Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio», confessava.

È salutare congedarsi dai postumi del 2023 con il saggio di un intellettuale tanto radicale quanto relativista; d’altronde, Kundera incarnava le contraddizioni di un Occidente democraticamente sottomesso agli imperativi finanziari.

I libri di Jakubè

È stato merito di Paolo De Caro ravvisare nella Primavera hitleriana di Eugenio Montale (La bufera e altro) tracce residuali di un cliziano “frankismo”, cioè un lontano legame parentale tra Irma Brandeis – Clizia, appunto – e l’eresiarca ebreo Jakub Frank, autoproclamatosi Messia sulla scorta degli insegnamenti di Sabbatai Zevi e leader di un movimento religioso risalente alla metà del Settecento. Con I Libri di Jakub (traduzione di Ludmila Ryba e Barbara Delfino, Bompiani, pagg. 1120, € 29,00), monumentale romanzo dedicato proprio a Frank (e numerato al contrario, in ordine decrescente), il Premio Nobel per la letteratura 2018 Olga Tokarczuk presenta il suo opus magnum, originariamente pubblicato in Polonia nel 2014.

Il taglio del testo è di chiara ascendenza postmoderna: l’enciclopedismo spinto fino alla minuzia, l’opera-mondo, l’allegorismo religioso che si mescola a elementi fantastico-fiabeschi, la pynchoniana ironia (si pensi al fluviale sottotitolo: «O il grande viaggio attraverso sette frontiere, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contare quelle minori. Narrato dai morti, e dall’autrice completato col metodo della congettura, da molti e vari libri attinto, e sorretto inoltre dall’immaginazione che dei doni naturali dell’uomo è il più grande. Memoriale per i saggi, riflessione per i compatrioti, istruzione per i laici, e svago per i malinconici»).

Tokarczuk segue passo dopo passo l’assurda parabola di vita di Jakub Frank: dal villaggio Rohatyn – diviso tra conventi domenicani, sinagoghe e chiese ortodosse – parte questo giovanotto che ricalca su di sé il motivo medievale dell’ebreo errante: «Jakub ha cominciato improvvisamente a presentarsi con un altro nome: non più Yankel Lejbowicz, bensì Jakub Frank come vengono chiamati qui gli ebrei d’Occidente, e così pure suo suocero e sua moglie. Frank, frenk significa straniero».

Tra misticismo ed erotomania

Tra misticismo ed erotomania, misinterpretazioni scritturali (il versetto di Isaia secondo il quale il redentore doveva essere «peccatore e mortale») e metodiche infrazioni della Torah, dispute dottrinali e avventure di ogni genere, Frank è un soggetto sgusciante, inafferrabile, lo Straniero par excellence, simbolo egli stesso di una concezione della letteratura come «perfezione di forme imprecise».

La doppia vista

Nella solitudine individuale si arriva a fare esperienza della vita, a «l’approvazione della vita fin dentro la morte», come sosteneva Bataille e come Fosse rappresenta nel monologo interiore dell’umile pescatore norvegese Johannes, in Mattino e sera. E significa contestare i propri modelli quanto riuscire a rinunciare, infine, alla sicurezza dei propri limiti. Questo è anche il testamento di Roberto Pazzi ne La doppia vista (La nave di Teseo, pagg. 208, € 19,00), il suo ultimo romanzo pubblicato postumo. Superato il prologo in cui lo scrittore concepisce l’indicibile desiderio degli angeli di aspirare all’immortalità della carne, invidiosi degli esseri umani ai quali il Signore dedicherebbe un’eccessiva attenzione, il libro si divide in tre parti, tre momenti della medesima verità. Quando ne La frivolezza dei moribondi, la prima, il canuto protagonista perde i punti di riferimento e nemmeno ricorda il suo nome, lo vengono a soccorre le creature di carta, i personaggi dei suoi romanzi. Da subito, Pazzi si affida alla pagina bianca per stigmatizzare, e a poco a poco esorcizzare, la sua paura più grande: smarrire l’identità che si fonda sulla memoria una volta calata la notte perpetua. Dunque si trasforma nel Padreterno, preso dalla brama di umanizzarsi, per ritrovarsi nei panni di Ludwig di Baviera, mecenate di Wagner, arrestato per demenza e incarcerato nel castello di Berg. In una sorta di discesa dantesca senza balze, l’io narrante assume le sembianze di Lucifero, che a sua volta si tramuta in una sequela di volti del male, di figure tiranniche che hanno segnato la storia: i faraoni, Nerone, Attila, Hitler e Stalin. E con l’intermediazione di Bernardo, nocchiero della nave che lo porterà a Damietta dal Sultano, tenta poi di acquisire la santa follia di Francesco d’Assisi, in viaggio per costruire una pace coi musulmani. Afflitto da un’attualità carica di incognite e dolori, nella quale gli equilibri del potere occidentale si sono incrinati rendendo possibile l’approssimarsi, secondo le Sacre Scritture, del cosiddetto «abominio della desolazione», allo scrittore non resta che la preghiera, la stessa che Dostoevskij definiva «un’ascensione dell’intelletto».

L’arte del romanzo, riedito da Adelphi, trad. di Ena Marchi, pagg. 168, € 12,00
Libri di Jakub, trad. di Ludmila Ryba e Barbara Delfino, Bompiani, pagg. 1120, € 29,00

La doppia vista, La nave di Teseo, pagg. 208, € 19,00

IL VELO INVISIBILE

Perchè negli anni Ottanta si è concentrato il più alto numero di serial Killer della storia d'Italia? 

Chi sono le donne assassine (in passato chiamate streghe) che hanno lasciato il segno, dall'antica Roma al secolo scorso? 

E come spiegare fenomeni come gli Ufo o i lupi mannari?