La città dei vivi
EINAUDI
2020
Supercoralli
pp. 472
€ 22,00
«Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell'incubo di
venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. Preghiamo di non
incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo
dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a
vestire i panni del carnefice?»
Le parole di Nicola Lagioia ci
portano dentro il caso di cronaca piú efferato degli ultimi anni. Un
viaggio per le strade buie della città eterna, un'indagine sulla natura
umana, sulla responsabilità e la colpa, sull'istinto di sopraffazione e
il libero arbitrio. Su chi siamo, o chi potevamo diventare.
Il libro
Nel
marzo 2016, in un anonimo appartamento della periferia romana, due
ragazzi di buona famiglia di nome Manuel Foffo e Marco Prato seviziano
per ore un ragazzo piú giovane, Luca Varani, portandolo a una morte
lenta e terribile. È un gesto inspiegabile, inimmaginabile anche per
loro pochi giorni prima. La notizia calamita immediatamente
l’attenzione, sconvolgendo nel profondo l’opinione pubblica. È la natura
del delitto a sollevare le domande piú inquietanti. È un caso di
violenza gratuita? Gli assassini sono dei depravati? Dei cocainomani?
Dei disperati? Erano davvero consapevoli di ciò che stavano facendo?
Qualcuno inizia a descrivere l’omicidio come un caso di possessione.
Quel che è certo è che questo gesto enorme, insensato, segna oltre i
colpevoli l’intero mondo che li circonda.
Nicola Lagioia segue questa storia sin dall’inizio: intervista i
protagonisti della vicenda, raccoglie documenti e testimonianze,
incontra i genitori di Luca Varani, intrattiene un carteggio con uno dei
due colpevoli. Mettersi sulle tracce del delitto significa anche
affrontare una discesa nella notte di Roma, una città invivibile eppure
traboccante di vita, presa d’assalto da topi e animali selvatici,
stravolta dalla corruzione, dalle droghe, ma al tempo stesso capace di
far sentire libero chi ci vive come nessun altro posto al mondo. Una
città che in quel momento non ha un sindaco, ma ben due papi.
Da questa indagine emerge un tempo fatto di aspettative tradite,
confusione sessuale, difficoltà nel diventare adulti, disuguaglianze,
vuoti di identità e smarrimento. Procedendo per cerchi concentrici,
Nicola Lagioia spalanca le porte delle case, interroga i padri e i
figli, cercando il punto di rottura a partire dal quale tutto può
succedere.
RECENSIONE
Quanto conosciamo davvero le persone con cui dividiamo la vita o tratti di essa? Tutte queste domande se le pone, e ce le pone, Nicola Lagioia, che ne La Città dei Vivi, romanzo pubblicato alla fine dello scorso anno, ripercorre tutte le fasi dell’omicidio Varani e ne racconta i protagonisti, fino al limite, per sua stessa ammissione, dell’ossessione. Il romanzo La Città dei vivi, scandaglia la natura umana e
alle sue molteplici contraddizioni.
Quasi accusando il colpo”. L’autore di La città dei vivi minacciava
infatti di creare un dibattito pubblico sui meccanismi censori e sul
potere che li gestiva, Lagioia dimostra di saper raccontare con maestria gli angoli più bui dell’animo umano e bisognava stare attenti a non dargli opportunità
di recriminare. Tutti i personaggi del romanzo, sono costretti a
dover scegliere tra la propria natura e la maschera che gli viene
imposta dalla società, in una lacerazione che ricorda alcune commedie
pirandelliane.
Il conflitto interno che Lagioia desidera evidenziare è la violenza, il vuoto, il dolore e il degrado degli esseri umani, ma c’è anche quello di una città, Roma, che allo stesso tempo attrae e respinge, e divora i propri cittadini dall’interno, repressa a fatica, in un mondo moralista e bigotto come quello dell’Italia borghese del Duemila. La Città dei vivi era quindi in primis
un atto di accusa verso una società che impediva alle persone di
esprimersi liberamente e forse per questo alla fine la sua gestazione di scrittura, nonostante gli iniziali
tentativi di nascondere il tema. Un libro in cui il protagonista era ostaggio degli stessi stereotipi che impedivano di esprimere se stesso e di creare un dibattito pubblico sui
meccanismi censori e sul potere che li gestiva e bisognava stare attenti
a non dargli opportunità di recriminare. Ma resta ancora oggi un manifesto di
come andrebbe intesa la cultura e della necessità che essa rimanga
sempre libera e vicina al popolo che deve fruirne.
In La citta dei vivi di Lagioia disegna un panorama italiano che, dal dopoguerra, non è mai
davvero cambiato, l’autore denuncia
infatti apertamente un legame stretto tra Chiesa e Stato che ha permesso uno stato di fatto violento, perché la cultura era diventata “odiosa” e pericolosa agli occhi di chi deteneva il potere.Troppi sono cresciuti in una società basata sulla spinta al consumo e si sentono vuoti quando non riescono ad assecondarla. In un tale contesto, è ormai
estremamente facile convincersi che la soddisfazione dei bisogni basti
per sentirsi liberi ma, ammonisce l’autore di La Città dei vivi: “Per quanto i bisogni abbiano un carattere tirannico, il soddisfarli non può chiamarsi libertà”.
In certe sterili polemiche, propugnate
da chi non è più in grado di riconoscere tra finzione artistica e
realtà, non si può non riconoscere i germi di un atteggiamento
sopravvissuto fino a noi, basti pensare a quanti potenti si sono
interrogati più sulle implicazioni negative di serie come La Città dei vivi che sulla necessità di estirpare quelle realtà che determinati prodotti di fiction rappresentano.
In generale, da parte di una certa
classe dirigente, continua a esserci un’ipocrisia di fondo: ha ragione Lagioia quando evidenziava che è come se venisse chiesto agli
scrittori e in generale ai creatori di cultura: “Perché dovete dirlo in
pubblico? Non basta che noi lo facciamo in segreto?”. Non c’è solo paura
che il marcio venga a galla in questa domanda ma anche un po’ di
bigottismo da parte di chi non comprende che l’arte possa toccare certi
argomenti.
La sopravvivenza di molti meccanismi
censori è dovuta al fatto che chi detiene il privilegio e il potere sa
benissimo qual è la forza di un popolo “intuitivo e in molti casi dotato
di genio” e istintivamente se ne proteggono, avvertendo “in modo
oscuro, ma penoso, che la sostanza della cultura moderna è
un’affermazione di libertà estrema, eroica, senza compromessi”.
Bisogna che la popolazione riesca a
comprendere la realtà e diventi consapevole delle sue potenzialità
ribellandosi alla spinta conformista, scoraggiando chiunque vorrebbe far
vivere gli italiani “come un popolo che vive nel passato a forza di censure e giri
di parole. C’è qualcosa di tristemente familiare in quello che scriveva
una persona nata nel 1904: “L’Italia non si stanca mai di essere un
Paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur
di rimanere vecchio”.
La Città Eterna diventa così cupa, teatro perfetto per l’enormità di quello che le accade dentro:
“Roma è una città che non produce più niente, non ci sono industrie,
non c’è cultura d’impresa, l’economia è parassitaria, il turismo è di
terz’ordine. I ministeri, il Vaticano, la Rai, i tribunali… ecco di cosa
è fatta Roma, una città che produce ormai solo potere, potere che
ricade su altro potere, che schiaccia altro potere, che concima altro
potere, il tutto senza mai un progresso, è normale che poi la gente
impazzisce.
Per questo, forse, Lagioia termina
chiamando idealmente a raccolta i giovani. Oggi come allora siamo noi a
doverci impegnare per sovvertire il sistema, portando in primo piano i
veri avversari contro cui è necessario battersi: censura, prepotenze
razziali e violenze fatte alla cultura in nome “della nazione, della
classe e della religione”. L’appello fatto da Lagioia, alle prime manifestazioni di violenza, e al profilarsi di qualunque dittatura, esse che
dovrebbero essere le nostre vedette, per il loro sguardo reso acuto
dalla cultura e dalla giovinezza”, ha forse maggior senso oggi che la
laurea è alla portata di molti più ragazzi di quanto non fosse nel 1950 e
ha una valenza particolare, anche alla luce dell’importanza che i
giovani hanno rivestito nell’intera opera letteraria di Lagioia, dove
spesso appaiono inappagati o senza stimoli.
Il tema centrale a mio avviso oltre la violenza è l’ipocrisia di non ammettere
quello che si è, l’unica speranza è la verità”. Quest’ultimo aspetto è l’ennesima testimonianza da riscoprire di un autore che ci ha ricordato come la libertà sia in primis il rifiuto di ogni pregiudizio ideologico e il risultato di un arricchimento culturale.