Le vite di Matteo e Carlotta si incrociano durante uno dei periodi più
complicati per il mondo delle relazioni, il lockdown. Le loro anime
incrinate, tanto lontane quanto simili nella loro fame di emozioni, si
conoscono online e giorno dopo giorno, chiusi tra le mura delle proprie
abitazioni, costruiscono un nuovo equilibrio fatto di parole, intimità e
personali verità. Cosa accadrà al loro rapporto quando, dopo mesi di
chiusura, le porte di casa torneranno a riaprirsi? Una volta che si
saranno conosciuti, la realtà saprà reggere il confronto con il brivido
dell'immaginazione? Dopo la pièce Ci sono giorni che non accadono mai,
interpretata da Sergio Castellitto e Isabella Ferrari, Valerio Cappelli
trasferisce su carta l'emozione del palcoscenico e ci rende spettatori
delle vite di Matteo e Carlotta: davanti a noi il sipario si apre e,
seduti in prima fila, ci immergiamo in una narrazione in tempo reale che
sorprende, ci interroga e parla di noi.
RECENSIONE
Ci sono amori che non accadono mai,
primo romanzo di Valerio Cappelli, racconta, con ritmo e
puntualità, un amore tossico, l'incontro tra due persone troppo
diverse, i nanismi della provincia piena di abiti firmati con
dentro nulla e appunto ancora il nulla a volte oggetto di
fascino.
Protagonisti Matteo, scrittore disincantato, e
Carlotta, commessa di Piacenza.
Cosa unisce inizialmente quest'uomo e questa donna?
Probabilmente nulla, solo un social condiviso ai tempi del
Covid 19. Su Facebook infatti i due diventano prima amici e poi,
in un crescendo da lockdown, cominciano ad amoreggiare. Tante
parole al telefono, altrettanti messaggi e video erotici per
consumare una sessualità impossibile da vivere.
Fin qui la
storia già raccontata da Cappelli, firma storica del Corriere
della Sera, in CI SONO GIORNI CHE NON ACCADONO MAI, una pièce
messa in scena nel 2020 al Ravenna Festival e Torre del Lago da
Sergio Castellitto, anche protagonista con Isabella Ferrari. Il
romanzo invece, edito da goWare (pp. 133, acquistabile su Amazon
in digitale e cartaceo, € 4,50 e € 13,00) e con prefazione di
Aldo Cazzullo, racconta la seconda parte di questa storia,
quella in cui Matteo e Carlotta si incontrano e finalmente
consumano la loro passione. E proprio quest'ultimo sarà
presentato alle 18, alla libreria Notebook
dell'Auditorium Parco della Musica-Ennio Moricone, alla presenza
dell'autore in un incontro moderato da Fabrizio Roncone e con
Sergio Rubini e Isabella Ferrari che ne leggeranno alcuni
stralci.
Alle origini dell'umanità era garantito il diritto di allontanarsi dalle comunità di origine.
Oggi invece ci preoccupiamo di <<fermare le partenze>>, favorendo i regimi dittatoriali.
Se applicassimo questa idea a quello che sta succedendo nell'epoca contemporanea, dove non solo intere popolazioni vivono in mezzo a privazioni materiali e a costrizioni e a violenze di ogni tipo, ma dove la parte ricca del mondo pontifica sulla necessità di <<fermare le partenze>>, di limitare gli aiuti e il diritto d'asilo (e persino il salvataggio), di impedire insomma l'esercizio della libertà fondamentale, quella di circolare?
E se provassimo a <<de-naturalizzare>>, ovvero a mettere in discussione l'idea secondo cui la normalità dell'essere umano è vivere nei rassicuranti confini di uno Stato?
E se la libertà di circolazione di tutti fosse il vero antidoto al sorgere di dittatori violenti, un modo pacifico di esportare la democrazia?
Siamo una specie in perenne fuga?
Senza scomodare società che a molti parranno esotiche e lontane (non per questo non esistono!), quanti discendenti di italiani ho incontrato i cui padri o nonni fuggirono altrove ai tempi del fascismo?
Quanti italiani hanno trovato asilo e rifugio altrove in epoche di carestie o penurie o semplicemente perchè hanno potuto lasciare il nostro Paese in cerca di fortuna altrove?
Da millenni civiltà, popoli, religioni, eserciti si contendevano il controllo delle sue mura, assediandola,
conquistandola, perdendola. Gli adulti nascondevano il dolore, le paure, il fallimento, ma gli
adolescenti nascondevano la felicità, come se mostrandola rischiassero
di perderla.
Il tentativo <<Lei>> di sembrare più a
posto e meglio presente di quanto non fosse realmente le ha dato uno
slancio che le ha fatto perdere l'equilibrio e inciampato, in modo
particolarmente rumoroso e imabrazzante, proprio mentre stava salendo il
gradino sociale.
Mi sono alzata in fretta, ho sorriso e mi sono
avvicinata zoppicando alla poltrona della scrivania. La testa mi
pulsava, ma sono stata attenta a non darlo a vedere. Cosa sorprendente,
ma non insolita, è stato proprio in quel momento imbarazzante e doloroso
che mi è venuta in mente una meravigliosa idea per un racconto.
“Siamo sempre inclini a dimenticare ciò che abbiamo detto o fatto
nel passato, anche per non avere il tremendo obbligo di rimanervi fedeli”.
<<Lei>> nella vita non aveva fatto altra cosa che essere bella ed era
giusto perciò che rimanesse attaccata alla sua bellezza. Oggi nell’alto
corpo disfatto, avvizzito, stanco, non ritrovava neppure le tracce di
quello di un tempo: allora si era attaccata all’ombra di quello, poiché
esso era stato per lei la vita stessa. Vita nomade di erede al casato perfetta
alla quale neppure il corpo era cagione d’amore. Forse non era stato
desiderato come quello delle altre donne poiché esso si mostrava tutto
prima che potesse essere maturato il desiderio di vederlo. Non era stata
intelligente, non era stata ricca, non era stata mai nulla, lei; la sua
anima non aveva mai avuto nulla. Il suo corpo era il protagonista della
sua vita: lui solo aveva vissuto.
La cultura, i libri, la musica, sono il nemico numero uno delle dittature, dei criinali che vogliono tenere stretto il loro potere grande o piccolo: e la storia delle letterature è, anche, la storia degli scrittori-oppositori. Che hanno scontato con l'esilio, la prigionia, la morte il loro essere scrittori. E' un fenomeno recente, una piaga del terribile Novecento rimasta aperta anche nel nostro secolo?
L'arte della lingua. Chi ha paura delle parole straniere?Perchè chiamare <<droplet>> le goccioline di saliva? O <<caregiver>> i familiari che assistono una persona?
La lettura di un brano di Proust, anche se può dare solo una
testimonianza sommaria dell'estrema ricchezza di motivi dell'opera,
necessità di alcune schematiche indicazioni di lettura che permettono di
superare le difficoltà del primo approccio:
1) La narrazione è lenta perchè lo svolgimento dell'intreccio non è ciò
che importa. L'autore si sofferma ad esplorare sottilmente i motivi
segreti di una parola o di un atto, crea una catena di spiegazioni che
si sviluppano l'una dall'altra ampliando il periodo in una serie di onde
successive;
2) L'analisi psicologica non tende, come nella narrativa d'impostazione
tradizionale, a definire i tratti essenziali di un carattere, ma a far
rivivere singolarmente le emozioni e le sensazioni che si accompagnano
in un dato momento ad una data situazione dell'animo: ad es., la
disposizione indicata inizialmente nel secondo brano, l'attrazione che
un pre-adolescente prova per una compagna di giochi, si articola in uno
svolgimento che, mentre è particolarmente povero di fatti, presenta una
serie di reminescenze dell'ambiente e del paesaggio, dei suoni e dei
colori, che nell'animo del protagonista assumono un rilievo particolare
perchè collegati all'immagine della ragazza. Ne emerge non una
psicologia tipica e generica di adolescente innamorato, ma l'eco di
un'esperienza particolare frantumata in una quantità di emozioni
individuali e temporanee;
3) La cronice storica, la rappresentazione della vita elegante e mondana
che coinvolge anche il mondo infantile, non è presentata immediatamente
nei suoi caratteri fondamentali, ma emerge da una serie di particolari,
talora insignificanti, che la memoria recupera attribuendovi un valore
particolare. L'opera di Proust è sotto questo aspetto anche il romanzo
di costume e ricostruzione di un'epoca.
Oggi è la giornata mondiale del Libro 2023 e del diritto d'autore. PresentoITALO CALVINO
Ci sono momenti in cui non puoi fare a meno di domandarti cos'è il tempo
o cos'è lo psazio: p. es. quando un leone si lancia contro di te per
sbranarti; oppure quando un killer t'insegue in un ingorgo stradale.
Noi
stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora,
tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in
quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari,
didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi
non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo
fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto,
mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che
eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo
per essere (...)
Perchè
chi oggi ricorda il <<neorealismo>> soprattutto come una
contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di
ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà gli
elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che
parevano un dato di narura; tutto il problema ci sembrava fosse di
poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi
il mondo.
Il
<<neorealismo>> non fu una scuola. Fu un insieme di voci,
in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie.
Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra - o che si
supponevano sconosciute, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da
far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato
<<neorealismo>>. (...)
L'abisso personale di Abn Al Farabi, Nero Edizioni
Cosa accadrebbe se, al cuore del mondo, vi fosse qualcos'altro, qualcosa
di oscuro, minaccioso e indefinibile? Cosa ne sarebbe della specie
umana se l'intelligenza e la coscienza non fossero che un prodotto del
caso e dell'evoluzione? Se l'Io fosse un noi, e noi un Io? Se la morte
si rifiutasse di accoglierci, lasciandoci ostaggio di un limbo senza
fine? Questi sono alcuni degli interrogativi che animano i racconti e le
novelle pubblicate. Al bivio tra horror astratto,
fiction speculativa e riflessione metafisica, i personaggi di queste
storie precipitano e si dissolvono in un nulla positivo, oltrepassando
l'oscuro confine che ci separa da ciò che più temiamo: l'ignoto e
l'inconoscibile.
Dal 1996 il 23 aprile di
ogni anno si celebra la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto
d’Autore, evento patrocinato dall’Unesco per promuovere la lettura e la
pubblicazione di libri.
Presentazione del Libro
Nel morire non mi muori mai di Beatrice Zerbini
Un nuovo e coinvolgente linguaggio per la poesia d'amore. Libro che attraversa ed esplora il vortice mai quieto delle relazioni
umane, mettendone a fuoco le emozioni e i sentimenti, restituendo a chi
legge non solo una poesia semplice, diretta e coinvolgente, sorgiva nel
ritmo dei versi, ma anche uno strumento di condivisione e di potente
immedesimazione. Nella lettura si ritrovano le tematiche del dolore, del
lutto, della memoria (alzheimeriana), dell'abbandono, dell'esperienza
amorosa in ogni sua declinazione, con i suoi slanci di spiccata passione
e con le sue perdite, senza dimenticare di lasciare una chiave di
salvezza, ironica e leggera, cifra di un percorso unitario e organico
che caratterizza i libri, che prende per mano i lettori e le
lettrici, come se fossero all'interno di una storia. Dopo il successo di critica e di pubblico del suo libro di esordio (In
comode rate), torna in libreria con una raccolta di poesie emozionanti e
commoventi, in cui lo stile della versificazione si mette al servizio
dell'esperienza personale dell'autrice e si fa universale. Amore,
dolore, lutto, attraverso il lavoro psicoterapico, di cui non si fa
segreto, entrano nel cono di luce della cura, in un turbinio di
emozioni, tra il pianto e il riso.
Arturo Rocchi, genio dell'informatica, si rifugia rocambolescamente
negli Stati Uniti durante gli anni della contestazione studentesca per
sfuggire a una vendetta, diventando un nome nel campo dell'innovazione
tecnologica. Molti anni dopo un'indagine della magistratura su morti
sospette di militanti fascisti e su vecchi terroristi di sinistra lo
riporta a Roma. Qui prova a costruire un prototipo della sua ultima
invenzione, che potrebbe migliorare il destino dell'umanità. Lavorerà
con un gruppo di studenti dell'Università di Roma, dando loro
l'inebriante e ineguagliabile sensazione di anticipare il futuro.
Incontrerà anche il suo primo amore, che da molti anni custodisce un
segreto che lo riguarda. Gruppi di investitori privati e la Commissione
Europea si contenderanno lo sfruttamento dell'invenzione di Arturo, ma
ci saranno altri omicidi e la magistratura continuerà a nutrire sospetti
su di lui. Il romanzo, ispirato da vicende realmente accadute, inizia
con la storia del Movimento studentesco e si conclude con una
riflessione profonda sulle recenti scoperte nel campo dell'Intelligenza
Artificiale, destinate a trasformare il mondo che conosciamo, e sulla
necessità di liberarci dai ricatti del passato. Prefazione di Adriano
Sofri. Postfazione di Franco Lo Piparo.
RECENSIONE
Il ricatto del gambero. Dai ribelli del '68 ai mostri del metaverso
Un romanzo di fatti, sentimenti e riflessioni sul nostro domani
Arturo Rocchi parla del ''controllo della cultura,
dell'editoria, e forse anche della conoscenza. Il controllo per decine o
centinaia di milioni di esseri umani di fare un salto culturale, di
aprirsi a un qualcosa che è completamente diverso'', a proposito del suo
''Processore Culturale'', un progetto rivoluzionario, ''una scheggia di
paradiso in terra'', che è al centro di questo romanzo in cui si
incontrano cronaca e realtà virtuale, o, come recita il sottotitolo, va
''dai ribelli del '68 ai mostri del metaverso''.
Sì, perché
l'anelito non tradito negli anni è appunto quello del periodo della
contestazione, della fantasia al potere, della visione politico, del
mondo da riformare, anche se qui si parte da una data precisa, il 1977
in cui la ribellione della sinistra extraparlamentare, di cui Arturo fa
parte, vede alcuni, con cui lui non è d'accordo, trasformarla in lotta
violenta, in sovversione armata. E quindi si trova poi costretto a
espatriare rapidamente, perché accusato di essere autore di una spiata
alla polizia che ha causato la morte di due compagni. Come
accaduto a tanti, lo studiare e lavorare in America è la sua fortuna,
avendogli permesso di diventare quell'ingegnere informatico di fama
internazionale che è quando torna in Italia 40 anni dopo, dando inizio a
un'avventura idealista e concreta assieme che è la sostanza della
narrazione. Il nuovo si intreccia con passato, che, se non si sono
chiusi i conti, ritorna sempre, connotando di giallo la vicenda con
persone e fatti che cercano di mettere i bastoni tra le ruote. Quelle
del nostro protagonista, grazie alla sua passione, iniziano subito a
girare, ma calate nella nostra realtà accademica e della ricerca, fatta
di giochi di potere e invidie, mentre lui si prefigge di lavorare con i
giovani, gli studenti dell'università di Roma che presuppone più aperti
alle novità e al pensare il futuro. Arturo vorrebbe mutare la
dittatura dell'algoritmo in qualcosa di rivoluzionario capace di unire
tutti i popoli della terra. Per questo il suo Processore funziona solo
se non tratta parole (se non ha a che fare con la confusione della
lingue) ma esclusivamente numeri e relazioni codificate, per riuscire a
immagazzinare, a memorizzare praticamente tutta la conoscenza, la
cultura umana e metterla disposizione di ogni persona.
L'intenzione, il sogno sarebbe di, ogni volta, ''non ripartire da zero
nell'educazione dei nostri giovani; la loro crescita culturale sarebbe
enormemente accelerata nel giro di poche generazioni''. Un
romanzo quindi particolare, di un autore che ha sempre lavorato sulla
realtà virtuale e oggi è un esperto di Intelligenza Artificiale e
propone questa storia certamente di buona leggibilità e con una scelta
narrativa che coinvolge, essendo sviluppata tutta per dialoghi, con
notazioni e raccordi che fanno pensare quasi a un lavoro teatrale fiume o
la base per una sceneggiatura. Un romanzo che ha la prefazione di
Franco Lo Piparo, docente di linguistica e presidente della Società
Italiana di Filosofia del Linguaggio, che ha esordito nel 1974 con un
saggio intitolato: ''Linguaggi, macchine e formalizzazione''. Nel suo
scritto parla di ''racconto filosofico'', mettendone in rilievo le
derivazioni da Wittgenstein e Nietzsche, e trova che il Processore in
questione, anche se il suo autore ''scienziato-filosofo sessantottino
non lo sa'', sia la ''versione digitale della Torre di Babele'',
ricalcando ''le orme dell'avventura biblica e del suo fallimento'', ma
con una conclusione al contrario, perché il limite che definisce ciò che
è umano da ciò che è divino e illimitato non porta in paradiso, ''ma è
mostruoso e vi scaraventa in qualche inferno''. Questo solo per
indicare le linee generali di questa storia, che è ricca anche di fatti,
tanto che vi sono alcuni omicidi, indagini della magistratura, giochi
economici legati all'invenzione di Arturo di investitori privati e anche
della Commissione Europea e naturalmente storie d'amore.
Ci sono versi pensati per essere scritti e stampati e altri per essere declamati. Talvolta questi universi si incontrano, e allora scocca la scintilla.
Questi due mondi, quello della poesia pensata per essere scritta e stampata e quello della parola proiettata verso un palco, sono scettici l'uno verso l'palgtro: ci sono reciproci pregiudizi. Eppure a unire l'uno e l'altro tipo di pratica della poesia c'è una sorta di comune resistenza all'impoverimento della parola.
Ci si rende conto, parlando che al di sopra delle distanze può prevalere l'autenticità della vocazione, la sincerità della ricerca. E' quel che accade ad ogni autore-attore: la ricerca di spazi di senso nella lingua, il fatto che le parole non sono frecce che devono centrare il bersaglio del senso, ma stumenti per accarezzarlo.
Ma ogni autore-attore, ha avuto un tirocinio, una formazione poetica e su quali modelli?
Tutti hanno qualche poesia. Si tratta di riattivare il gusto per la parola che ciascuno a sperimentato una volta, almeno a scuola.
Per la Giornata Mondiale della Terra. La civilizzazione e i suoi scarti.
E' necessario iniziare a pensare alla transizione ecologica: non come l'estrema scappatoia di un pianeta in caduta verso la devastazione, ma come un percorso necessario. Necessario perchè immagina una società di relazioni in cui i beni (acqua, energia, terra) si condividono.
<<C'è chi pensa sia un cambiamento traumatico, ma io di traumatico vedo solo le conseguenze del neoliberalismo e della crisi climatica: in Italia la mancanza di acqua sarà inevitabile. Per questo la transizione non dovrebbe fare paura>>.
Oggi si sta diffondendo l'idea che la transizione sia un boccone da digerire ma non sono d'accordo. E' una strada facile da percorfrere. Molto più semplice che sopravvivere in u mondo terribile.
Analizzare gli errori della scienza economica. Perchè le diamo ancora tanto credito?
Siamo in tempo per cambiare?
E per la transizione siamo in tempo?
Serve una società più intelligente o più solidale per capirlo?
Il fallimento dell'Europa su tutto, soprattutto sulla sanità. La viralità è tornata a incarnarsi nelle nostre vite. E tuttavia ci sono tre lezioni da cogliere: che le tecnologie hanno soltanto amplificato:
una radicale solitudineesistenziale;
che dobbiamo riappropriarci del senso del limite;
che avevamo rimosso la nostra mortalità.
Ma si può ricominciare? La fragilità ci renderà tutii più solidi e durevoli?
Quali sono le caratteristiche dell'uomo globalizzato?
(L'immagine è di Bruce Nauman Fort Wayne, Stati Uniti, 1941,Unitled, Hand Circle 1996, bronzo e argento, saldatura d'argento e rame), Londra, Tate Modern: Nauman ha più volte sclpito le sue mani in quanto simbolo del lavoro d'artista.
Il
nostro parlare d'amore. Ora la domanda è: può, oggi, un'opera che solo
ieri saebbe stata relegata sugli scaffali della gap fiction, aspirare
all'universalità?
Chi è davvero Roland Baines? È il bambino pieno di talento che subisce
le attenzioni morbose della maestra di pianoforte, ma anche il banale
pianista di piano-bar che ha rinunciato alle sue ambizioni. È la vittima
di una donna geniale ed egoista che lo ha abbandonato con un figlio
neonato, ma anche il fallito che passa da un'esperienza all'altra a
motore spento, sospinto dalla sola forza dei venti. Quali lezioni gli
hanno impartito la sua storia e la Storia che si dipana sullo sfondo?
Nella vita senza qualità del suo personaggio, McEwan ha disegnato il
profilo del nostro tempo tragico e inquieto, affidando ai suoi lettori
un romanzo di sconvolgente maestria e luminosa intensità emotiva.
«Ian McEwan ritorna con la sua opera migliore dai tempi di Espiazione. E ancora una volta ci conquista». «Publishers Weekly»
Il libro
Figlio del capitano Robert Baines, autoritario veterano della Seconda
guerra mondiale ora di stanza in Nord Africa, e di sua moglie Rosalind,
Roland fatica a capire perché a soli undici anni gli tocchi lasciare le
pietre calde e la pazza libertà di Libia, e il fianco tiepido di sua
madre, per affrontare un’istruzione rigorosa e solitaria nella fredda
Inghilterra. Là faticherà a capire che cosa voglia da lui Miss Miriam
Cornell, la temibile insegnante di pianoforte del collegio, che punisce
le sue manchevolezze con pizzicotti dolorosi e imbarazzanti e premia i
suoi successi con languidi baci sulla bocca, e con gli uni e gli altri
in egual misura lo terrorizza e lo attrae. Sarà poi la sua moglie
anglotedesca Alissa a confonderlo e straziarlo quando, a pochi mesi
dalla nascita del loro bambino Lawrence, abbandonerà marito e figlio al
loro destino senza una spiegazione. Roland passerà il resto della vita a
interrogarsi su di sé e sulla «natura del danno» che le tre donne –
madre, insegnante, moglie – gli hanno procurato. Chi è davvero Roland
Baines? Il giovane prodigio del pianoforte il cui straordinario talento è
stato frustrato dai soprusi di un’insegnante, o l’indolente pianista di
piano-bar che ha rinunciato alle sue ambizioni per pavidità? È il
figlio di genitori intransigenti ma amorevoli, o il fratello di bambini
come lui defraudati dei loro diritti da una madre degenere? È il marito
di una donna spietata che immola gli affetti piú cari alla sua arte, o è
il soffocante groviglio di bisogni che l’ha costretta alla fuga?
L’aspirante scrittore amante della grande letteratura, o il ladro di
frasi altrui con cui confezionare biglietti per ricorrenze a pagamento?
Il padre premuroso e sempre presente, o l’ostaggio imprigionato in una
paternità accollata? È il bambino vittima di abusi o il giovane «incline
all’intimità» e alla felicità dei sensi? È tutte queste cose insieme,
forse, essere poliedrico come il secolo che la sua vita attraversa?
Dalla Crisi dei missili di Cuba alla caduta del Muro di Berlino, dalla
glasnost al thatcherismo, dall’invasione dell’Iraq alla pandemia da
Covid, Roland pare fluttuare da un’esperienza alla successiva a motore
spento, sospinto dalla sola forza dei venti. Ma strada facendo qualche
lezione la impara, se alla fine di tutto può approdare a una nuova
curiosità d’amore, portato dalla mano piccola di una bambina in cui
depositare una lunga eredità.
RECENSIONE
La più recente opera dello scrittore britannico disturba l'integrità della coscienza, per questo ha bisogno di un lettore maturo con alle spalle una lunga esperienza di vita.
L'esigenza pressante di affermare una propria identità, di attribuire alla nostra vita un senso, una qualsiasi direzione o possibilità di lettura, è data dalla forza ineluttabile del Sè. Lezioni è stato definito, romanzo di formazione, così con maggior forza, quanto più riconoscibili appaiono i profili psicologici dei personaggi o prevedibili le trame.
Lezioni l'ultimo romanzo di McEwan (edito da Einaudi), che non si limita all'ormai consueta rappresentazione dell'anti-eroe (quell'inetto che, a partire dall'Uomo senza qualità di Musil, ha abbondantemente popolato l'immaginario del Novecento). il protagonosta del romanzo di McEwan si lascia inseguire in una biografia scomposta, frammentata, incespicante. Ma nè per lui, nè per altre soggettività che incociano il suo cammino, c'è speranza di una scelta di vita indovinata.
Si tratta di un romanzo che fa di tutto per disturbare l'integrità coscienziale del lettore: suggerisce in ogni momento di fare un bilancio della propria esistenza, ridicolizzandone ogni possibilità di riuscita. Se la letteratura ha in parte il compito di dischiudere a ciascuno lo sguardo su una porzione di realtà, Lezioni di McEwan è un affaccio sul nulla.
A parer mio questo romanzo non è una lettura adatta ai giovani. L'adolescenza, infatti, deve poter rivendicare un diritto all'aspirazione nella costruzione del Sè, rispetto al quale solo dopo una solida esperienza di vita è possibile cimentarsi con la resa, giacchè come diceva Cervantes :<<non sopporto chi m'inganna, ma più di ogni altra cosa detesto chi mi dice la verità>>-
"Le montagne mi chiamano" è una selezione di citazioni dai diari, i
libri e le lettere di John Muir, scienziato, alpinista, inventore,
"padre" dei parchi naturali e tra i più importanti naturalisti del suo
tempo. Dai semplici aforismi alle dettagliate descrizioni delle sue
peregrinazioni, gli oltre duecento passaggi qui raccolti - moltissimi
dei quali inediti - tracciano la vita di Muir come una sorta di
biografia, restituendo al contempo l'essenza del suo pensiero e del suo
amore smisurato per il mondo naturale. Dall'approdo nel Nuovo Mondo poco
più che bambino - il suo «battesimo nella pura natura selvaggia» -
all'illuminazione e alla comunione spirituale con le montagne dello
Yosemite, fino alle battaglie per la tutela della wilderness: in queste
citazioni il lettore ritroverà lo scrittore, il visionario, il mistico
della natura che ha cambiato per sempre il modo in cui gli uomini
moderni guardano e si rapportano all'ambiente. Che si tratti di
descrivere una goccia di rugiada, un'ombra proiettata su una roccia, un
terremoto che scuote le pareti di Yosemite o una tempesta di vento a cui
assiste arrampicato in cima a una sequoia, lo sguardo di Muir è sempre
teso a rintracciare l'unico «palinsesto della natura», quello in cui
ogni cosa - grande o piccola - partecipa di una sola unità, di una sola
armonia, di una sola bellezza.
Recensione
Tornare a casa nella natura selvaggia
John Muir ci invita a immergerci nei silenzi delle montagne per poter essere laddove la vita è sempre all’opera
Prima che la natura perda la pazienza e aggrotti la
fronte sotto forma di cataclismi, meglio ascoltarla e immergersi nel suo
essere immenso e selvaggio: «Le montagne sono fonti, non solo di fiumi e
terreni fertili, ma anche di uomini. Perciò noi tutti, in un certo
senso, siamo montanari, e andare in montagna è tornare a casa. Eppure,
quanti fra noi sono condannati a faticare nelle ombre delle città,
sebbene le candide montagne ci chiamino lungo l’orizzonte». John Muir,
padre della wilderness e dei parchi naturali, filosofo ambientale
e scrittore, sa che le stelle sono gigli del cielo e le montagne uno
spettacolo glorioso. Per tutta la vita (era nato in Scozia nel 1838 e
morì in California nel 1914), ha saputo dimenticare se stesso nelle
foreste e farsi devoto della natura; ha scritto lettere, diari, saggi
senza requie, è stato il primo scienziato a documentare il cambiamento
climatico e ne Le montagne mi chiamano. Meditazioni sulla natura selvaggia c’è la filosofia di una vita e del nostro presente: conta l’essere più che l’arrivare da qualche parte.
Essere parte della Natura
Il
volume, che propone il meglio degli scritti di Muir, è l’atto di amore
di un mistico verso la natura e proclama l’unità indivisibile fra uomo e
ambiente: «ci sentiamo parte della Natura selvaggia, consanguinei di
tutto l’esistente». E in questa simbiosi la bellezza di una goccia di
pioggia o delle campanelle di Cassiope sono la ragione del nostro andare
per montagne e boschi. Il padre dell’ambientalismo, che avrebbe potuto
vivere da milionario ma preferì essere vagabondo, attraversa una prima
fase dell’esistenza più concentrata sulla contemplazione del mondo
naturale, che culmina con la creazione del parco di Sequoia (1890) e
dello Yosemite (1906), e una seconda più battagliera e “politica”, il
suo vero lascito fino a noi che sfocia nella certezza di una nuova vita:
«Non cieca opposizione al progresso, ma opposizione a un progresso
cieco».
In viaggio fra Alaska, Golfo del Messico e Canada
Una volta lasciata la cabin
nel parco dello Yosemite, Muir si stabilisce a Oakland, California, per
dedicarsi alla scrittura, senza dimenticare però la fonte delle sue
riflessioni, e cioè viaggi ed esplorazioni. In Alaska studia il modo in
cui le glaciazioni hanno creato paesaggi e modificato clima, fauna e
flora; esplora l’East Coast dell’America centro-settentrionale, dal
Golfo del Messico fino al Canada; raggiunge l’Europa, poi Russia, India,
Corea, Cina, Giappone e Australia. Nel 1892, fonda il Sierra Club
perché si rende conto che, senza azione politica, il suo spirito non
avrebbe raggiunto mai l’opinione pubblica e il suo credo, così
contemporaneo, non avrebbe camminato: «Ovunque la vita è all’opera e
cancella ogni ricordo della confusione umana».
‘a volte devi arrivare in cima alla scala per scoprire che è appoggiata alla parete sbagliata‘.
La lettrice s’immerge nella lettura di una storia oscura di cui è stata, a dire dell’autore, fonte primaria di ispirazione.
Catturata dallo scorrere narrativo la donna è sconvolta dall’abisso di cupa
violenza in cui la precipita il romanzo, catapultata in un ambiente
sordido e brutale così distante da ogni sua esperienza di vita reale,
…eppure, capace di costringerla a guardarsi dentro oltre la superficie
patinata delle cose, in una spietata resa dei conti con se stessa, tra
sensi di colpa e rimpianti per l’incessante lotta interiore tra ciò che
avrebbe voluto essere e ciò che ha scelto di essere.
strutturato su tre diversi piani narrativi avvinghiati e dosati con
perizia scientifica; il presente della protagonista in una gelida e
notturna Los Angeles, intrecciato ai ricordi lontani del suo matrimonio
con lo scrittore a New York, contrapposto alle abbaglianti distese
assolate nel deserto del Texas occidentale in cui si ambienta il romanzo
che le impedirà di dormire.
Per rendere plausibile l’incipit in zone selvagge senza
copertura di una storia concepita quando i cellulari non c’erano, ma
anche e soprattutto per fare un ritratto impietoso e realistico di
quella provincia del sud omofoba e feroce in cui lui è cresciuto.
Imprigionata nel ruolo statico praticamente immobile della protagonista,
per lo più impegnata a leggere il libro, è straordinaria nel
restituirne tutti i fremiti di terrore e amarezza.
Un
saggio magistrale su uno dei romanzi più famosi al mondo, un simbolo
riconosciuto della cultura europea da uno dei massimi esperti di storia
del libro e della lettura.
Il libro
«In un’angusta cella di prigione, in una
città spagnola il cui nome non vogliamo ricordare, forse Castro del Río o
forse Siviglia, un uomo d’armi e di lettere, cinquantenne e già stanco,
concepisce un personaggio a propria immagine e somiglianza, un
cavaliere un po’ più ridicolo e più coraggioso di lui, un individuo
strenuamente deciso a combattere le quotidiane ingiustizie del mondo.
Tra quattro umide pareti, “ove ogni scomodità ha il proprio seggio e
ogni triste rumore prende dimora”, pareti che certamente gli ricordano
la sua lunga prigionia africana, il detenuto Miguel de Cervantes
Saavedra dà vita a un vecchio hidalgo che rifiuta di piegarsi alle
convenzioni menzognere di questo mondo e decide di obbedire unicamente
alle norme dettate dalla sua coscienza».
Miguel de Cervantes finge di aver trovato il manoscritto del Don Chisciotte opera di un certo Cide Hamete Benengeli, un moro. Sono gli anni, quando lui scrive, in cui i moriscos, gli arabi convertiti, sono cacciati dalla Spagna: ultimo atto da parte del potere di un tentativo di limpieza de sangre,
e di invenzione di una identità pura della Spagna. Quindi
l’attribuzione a un moro e a una lingua vietata del suo capolavoro è già
di per sé un atto sovversivo. E non è se non il primo degli
innumerevoli doppi che si trovano in quest’opera-specchio segreto. Sono i
«diversi altri», i «fantasmi» di cui Cervantes, per caso o per studio,
dissemina il primo e più fondamentale romanzo moderno. Questa fitta,
ingegnosa e sorprendente analisi di Alberto Manguel (Buenos Aires 1948,
scrittore e uno dei lettori del cieco Borges nonché fondatore di un
rivoluzionario Centro internazionale sulla lettura) li svela
puntigliosamente.
RECENSIONE
Lo "storytelling" a volte gioca brutti scherzi: Don Chisciotte, uno dei
libri più popolari nel mondo, il capolavoro che ha dato alla Spagna un
simbolo riconosciuto della sua cultura, dato alle stampe negli anni
della brutale ricerca della "limpieza de sangre", della identità pura,
di fede cristiana immacolata, voluta dalla Corona, viene costruito da
Cervantes dando voce ad un immaginario completamente opposto.
Grazie
ad una finzione letteraria costruita attorno ad una figura "positiva" e
non marginale nell'impianto del racconto: quella di un reietto, di un
arabo, cacciato come tutti i "moriscos" dalla sua terra.
E' questo, ci racconta Manguel, scrittore e traduttore
argentino, direttore della biblioteca Nazionale di Buenos Aires, allievo
di Jorge Luis Borges, uno dei "fantasmi" che aleggiano nell'opera di
Cervantes, lo specchio di una finzione, dell' invenzione di Cervantes
che è pari a quella costruita dalla narrazione e dalle ambizioni di chi
deteneva allora il potere. Anzi, essendo quella del romanzo cavalleresco
più aderente alla realtà sociale dell'epoca, la sua narrazione risulta
molto più verosimile rispetto allo storytelling ufficiale che
rincorreva, all'epoca, l'ideale di una fittizia purezza cristiana, con
la quale la Spagna era stata privata di due terzi della sua popolazione,
quella dei mori e degli ebrei.
Il Don Chisciotte viene
pubblicato a Madrid nel 1605, quattro anni prima che venisse emanato il
decreto di espulsione dei "moriscos", vale a dire degli arabi che
popolavano la penisola iberica. Con l'editto del 1492 che determinò la
cacciata degli ebrei prima, e degli arabi qualche anno dopo, la Spagna
Cattolica, con l'aiuto dell'Inquisizione, si era voluta "inventare" un
identità cristiana pura, provando a cancellare le sue radici sociali e
culturali. E' in quel contesto culturale che Cervantes affida la genesi
del grande capolavoro della letteratura spagnola ad un "moro", grazie ad
un artificio letterario.
La storia del Don Chisciotte inizia infatti
con un anziano signore che, influenzato dalla lettura dei romanzi
cavallereschi, decide di farsi cavaliere errante. Cervantes inizia a
raccontare le sue avventure ma quasi subito si ferma, confessando di non
sapere più come la sua storia possa proseguire.
Pagine più avanti
arriva però la soluzione: l'autore racconta che trovandosi un giorno in
un'affollata strada di Toledo, gli capita di imbattersi in alcune carte
che lo incuriosiscono: sono scritte in caratteri arabi e Cervantes non
le sa decifrare. Impaziente di scoprire cosa contenga quel manoscritto
cerca quindi un "morisco" che possa tradurgliele. Ne trova uno
(Cervantes ne descrive i tratti e la storia, facendo affezionare il
lettore anche al suo destino di esiliato che torna nella sua amata
Spagna perché incapace di starne lontano), che gli rivela che si tratta
di un racconto che narra la storia di un certo Don Chisciotte, opera di
un autore chiamato Cide Hamete Benengeli, o come meglio tradotto da
alcuni, Sidi Ahmed Benengeli.
Un Moro, dunque, condannato con il suo
popolo a vivere fuori dai confini del paese e una lingua, quella araba,
che era, molto probabilmente, la più antica lingua parlata nella
penisola iberica ma che era divenuta ormai proibita. E' un espediente
letterario quello trovato dall'autore, un vero e proprio "atto
sovversivo" sostiene Manguel, uno dei tanti innumerevoli doppi che si
trovano nell'opera "specchio-segreto" che popola e riempie di "fantasmi"
il primo e fondamentale romanzo moderno.
"Chi fosse Cervantes e
quali fossero le sue opinioni politiche e sociali non è importante. È
più importante - scrive Manguel - il fatto che per un lettore di oggi
l'onnipresenza di Cide Hamete nel don Chisciotte e le scene commoventi
che alludono a un popolo ingiustamente cacciato, ci dicono che una
cultura esclusa non può essere facilmente messa a tacere, che nel corso
della storia ogni assenza ha il peso e la forza di una presenza e che
molto spesso la letteratura è più sapiente del più sapiente dei suoi
artigiani".
La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista
Di: Cinzia Colzi
Secondo appuntamento dantesco al Museo Nazionale del Bargello con la
nuova mostra, curata da Carlo Sisi e Ilaria Ciseri, volta a indagare la
complessa percezione della figura di Dante e della Divina Commedia nel contesto artistico e letterario tra Otto e Novecento. “La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista”
è concepita come una narrazione tematica e interdisciplinare,
all’interno della quale le opere formano una stringente sequenza per
collegare fra loro dipinti, sculture e rimandi concettuali e letterari
impliciti nella vicenda biografica e poetica del Sommo Poeta.
Visitabile fino al prossimo 9 gennaio – realizzata con il contributo e
il patrocinio del Comitato Nazionale per le Celebrazioni dei settecento
anni dalla morte di Dante Alighieri, il patrocinio del Comitato “700
Dante” coordinato dal Comune di Firenze, il contributo di Fondazione CR
Firenze – presenta una selezione di opere, dalle correnti naturaliste
agli influssi europei del Simbolismo, per ben focalizzare sulle
variegate immagini ispirate al poema.
La mirabile visione del titolo rimanda agli studi danteschi
di Giovanni Pascoli ed è articolata in varie sezioni, rispettivamente
dedicate alla scoperta del più antico ritratto di Dante, opera di
Giotto, nella cappella del Bargello (1840) protagonista della precedente mostra temporanea (conclusa lo scorso 8 agosto), alle suggestioni della Vita Nova nella seconda metà dell’Ottocento, ai grandi e tragici personaggi della Commedia
rappresentati nell’ambito artistico internazionale, alle opere
presentate al Concorso Alinari del 1901 e alle illustrazioni più affini
alla sensibilità simbolista, ma anche alla risonanza della Commedia nella produzione letteraria sia di Pascoli che di Gabriele d’Annunzio.
Fratelli Alinari Foto di scena di Eleonora Duse nel ruolo di Francesca da Rimini, 1901
L’esposizione dimostra quindi l’interpretazione figurativa della Vita Nova e della Commedia
che, nella stagione dell’estetica simbolista, ha estratto da quelle
pagine visioni di forte suggestione, anteponendo alle drammaturgie
romantiche la nuova poetica degli “stati d’animo”, le evasioni
dell’estetismo, come pure le inquietudini maturate nell’ampio crogiuolo
della cultura artistica e letteraria di fine secolo. Il curatore, Carlo
Sisi, illustra: «Dopo la metà del XIX secolo, alla vigilia del
centenario dantesco che verrà celebrato nel 1865, la figura di Dante si
identifica ancora con l’idea nazionale sancita dagli esiti della
politica risorgimentale, per cui il Poeta è definito ”precursore della
unità e libertà d’Italia” e come tale è rappresentato nei monumenti
ufficiali che cominciano a popolare le piazze italiane, come quella di
Santa Croce a Firenze, avallando una sorta di processo di
identificazione civica ed etica che riconosceva in Dante “l’Italia tutta
quanta; arte e scienza, memorie e speranze, colpe e sventure…”.
Apice di sentimenti che si sarebbero di lì a poco frammentati in
una varietà di sperimentazioni alimentate dalla vivace dialettica fra le
correnti naturaliste e gli influssi europei del Simbolismo, più inclini
questi ultimi a ritrovare nella Vita Nova e nella Commedia le matrici
dell’inquietudine moderna, gli spunti per trasferire nella sensibilità
contemporanea lo straordinario catalogo di immagini – turbate, sublimi,
mistiche, oniriche – che la poesia di Dante era in grado di offrire al
mondo dell’arte».
Raffaello Sorbi – Dante che incontra Beatrice, 1863
Per incarnare il sogno medioevale, i preraffaelliti rivolsero
principalmente le loro sensibilità ai fatti della vita del poeta e, su
tale sogno, il Curatore prosegue: «consacrato dagli scritti di
Ruskin, nella rappresentazione di una vicenda biografica esemplare non
solo per il suo intrinseco valore ma anche per le suggestioni estetiche
che in quegli anni venivano indicate a modello di vita dell’uomo
contemporaneo. Dante Gabriel Rossetti, che nel nome aveva assunto
l’eredità della devozione paterna per il poeta, dipinge Il sogno di
Dante (1871) ispirandosi alla Vita Nova e stabilendo da allora, sul
piano concettuale e stilistico, un canone di rappresentazione che
tendeva ad armonizzare la difficoltà del concetto con la raffinata
evocazione dei luoghi, dei costumi, degli arredi, componenti che
diverranno dominanti nelle opere dei pittori anglosassoni rapiti nel
“sogno” fiorentino: dal celebre Incontro di Dante e Beatrice di Henry
Holiday (1882-1884) all’immaginosa ricostruzione ambientale del Dante a
Verona di Marie Spartali Stillman (1888).
Sullo stesso piano di prevalente indirizzo estetizzante sono da
porre anche le affezioni dantesche di artisti italiani – Duprè,
Cassioli, Ranzoni, Faruffini, Barabino, Sartorio, Sorbi, Trentacoste –
che si accostano alla vita di Dante e alla sua Commedia accentuando
l’immaginazione lirica che trovava alimento nella poetica degli “stati
d’animo” e nel serrato dialogo fra arte figurativa e letteratura ».
Gustave Doré – Paolo e Francesca da Rimini all’Inferno, prima del 186
Ne consegue come, la vicenda di Paolo e Francesca, assuma la funzione
di paradigma di quella sintonia espressiva riconoscibile nelle opere di
Gustave Doré, di Auguste Rodin, di Gaetano Previati. Ancora il professor Sisi: «essenziale
ma significativa antologia della fortuna di un tema, il crimen amoris,
amplificato dalla tragedia di Gabriele d’Annunzio e dalla musica di
Riccardo Zandonai. Sullo scorcio del XIX secolo, le celebrazioni indette
per commemorare il VI centenario dell’elezione dell’Alighieri a Priore
delle Arti nel governo della Repubblica fiorentina furono occasione di
importanti iniziative collegate alle sorti della fortuna di Dante:
nell’aprile del 1899 la Commissione esecutiva della Società Dantesca
Italiana riprese infatti la Lectura Dantis in Orsanmichele, inaugurando
la monumentale cattedra neogotica allestita, con esiti scenografici, da
Enrico Lusini e Giacomo Lolli; mentre, alle soglie del nuovo secolo, la
stessa autorevole associazione avrebbe affidato le sorti di quella
‘primavera’ letteraria alla vena immaginifica di Gabriele d’Annunzio,
prezioso commentatore del canto VIII dell’Inferno, e che sarà prefatore,
nel 1911, della sontuosa edizione della Commedia edita da Leo Samuel
Olschki».
Il 9 maggio 1900, veniva bandito da Vittorio Alinari un concorso per
l’illustrazione della Divina Commedia: le opere dei trentuno artisti
partecipanti – fra questi, Alberto Martini, Galileo Chini, Duilio
Cambellotti, Adolfo De Carolis, Plinio Nomellini, Giovanni Fattori,
Alberto Zardo – furono esposte, nel giugno dell’anno successivo nelle
sale della Società fiorentina di Belle Arti palesandole
potenti espressioni artistiche presenti in Italia a cavallo del cambio
di secolo poi riunite in tre prestigiosi volumi editi fra il 1902 e il
1903.
Otto Vermehren – L’isola dei morti, 1886-1900
Carlo Sisi, al riguardo, rileva: «Gli apprezzamenti e le
polemiche sollecitati da questa impegnativa impresa coinvolsero non
soltanto l’ambito artistico – principale comparto messo alla prova in un
momento di approfondita revisione dell’eredità ottocentesca e di
sguardo inquieto sui contemporanei sviluppi dell’arte europea – ma anche
la compagine letteraria e degli studi storici, fino ad integrare il
contesto quotidiano delle arti applicate e il nuovo linguaggio
cinematografico, in prova che la figura di Dante e le pagine del suo
poema costituivano ancora, alla vigilia delle Avanguardie, un’attuale e
spesso controversa materia di confronto. Firenze, città dantesca, induce
pensieri che invitano a singolari connessioni lontane nel tempo ma
disposte ad un dialogo eccentrico, in grado di collegare temi e luoghi
sulla traccia degli “stati d’animo”. Da una parte l’Isola dei morti di
Arnold Böcklin, forse ispirata alla collinetta sepolcrale del Cimitero
degli Inglesi, era nelle intenzioni dell’artista un «quadro per
sognare», in grado cioè di rendere visibile l’invisibile con immagini
criptiche e nello stesso tempo rivelatrici. Dall’altra L’enigma di
Giorgio de Chirico è la prima rivelazione metafisica, successiva al
periodo böckliniano, che le architetture di piazza Santa Croce ispirano
all’artista rinviando all’immobilità del tempo, all’eterno ritorno e
all’eterno presente, dove la statua di Dante funge da solenne,
ineffabile meridiana».
Aristide Foà – Inferno, canto XXIV, ante 1922
Per favorire la comprensione anche al pubblico più giovane la figura
di Dante e il suo rapporto con Firenze, proseguono i laboratori gratuiti
“Dante per tutti” dedicati a bambini e ragazzi (iniziati – riscuotendo grande successo – in occasione della precedente mostra “Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante”) realizzati grazie al contributo della Fondazione CR Firenze.
Accompagna la mostra un bel catalogo edito da Polistampa.