Breve storia del mio silenzio
MARSILIO
pp. 208, 1° ed.
2019
Euro 16,00
Il libro
Breve storia del mio silenzio di Giuseppe Lupo è stato selezionato tra i 12 candidati alla LXXIV edizione del Premio Strega
L’infanzia, più che un tempo, è uno spazio. E infatti dall’infanzia si
esce e, quando si è fortunati, ci si torna. Così avviene al protagonista
di questo libro: un bimbo che a quattro anni perde l’uso del
linguaggio, da un giorno all’altro, alla nascita della sorella. Da quel
momento il suo destino cambia, le parole si fanno nemiche, anche se poi,
con il passare degli anni, diventeranno i mattoni con cui costruirà la
propria identità. Breve storia del mio silenzio è il romanzo di
un’infanzia vissuta tra giocattoli e macchine da scrivere, di una
giovinezza scandita da fughe e ritorni nel luogo dove si è nati, sempre
all’insegna di quel controverso rapporto tra rifiuto e desiderio di dire
che accompagna la vita del protagonista. Natalia Ginzburg confessava di
essersi spesso riproposta di scrivere un libro che racchiudesse il suo
passato, e di Lessico famigliare diceva: «Questo è, in parte, quel
libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri
tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi di quanto abbiamo
visto e udito.» Così Giuseppe Lupo – proseguendo, dopo Gli anni del
nostro incanto, nell’“invenzione del vero” della propria storia
intrecciata a quella del boom economico e culturale italiano – racconta,
sempre ironico e sempre affettuoso, dei genitori maestri elementari e
di un paese aperto a poeti e artisti, di una Basilicata che da rurale si
trasforma in borghese, di una Milano fatta di luci e di libri, di
un’Italia che si allontana dagli anni Sessanta e si avvia verso
l’epilogo di un Novecento dominato dalla confusione mediatica. E
soprattutto racconta, con amore ed esattezza, come un trauma infantile
possa trasformarsi in vocazione e quanto le parole siano state la sua
casa, anche quando non c’erano.
Giuseppe Lupo è
nato in Lucania (Atella, 1963) e vive in Lombardia, dove insegna
letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di
Milano e Brescia. Per Marsilio, dopo l’esordio con
L’americano di Celenne (2000; Premio Giuseppe Berto, Premio Mondello), ha pubblicato
Ballo ad Agropinto (2004),
La carovana Zanardelli (2008),
L’ultima sposa di Palmira (2011;
Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini), Viaggiatori di nuvole (2013; Premio Giuseppe Dessì), Atlante immaginario (2014), L’albero di stanze (2015; Premio Alassio-Centolibri) e Gli anni del nostro incanto (2017; Premio Viareggio Rèpaci) e Breve storia del mio silenzio (2019, selezionato nella dozzina del Premio Strega). È autore di numerosi saggi e collabora alle pagine culturali del Sole 24 Ore e di Avvenire.
RECENSIONE
Il protagonista è ancora un bambino, quando a dispetto di tutto e di tutti, in particolare dei suoi genitori, smette di parlare. Scoprirà a poco a poco cosa significa estraniarsi dal resto del mondo, quel gioco, le parole, urlate o sussurrate, lo accompagnano, ne diventano fedeli amiche, lo fanno progredire o regredire,
scoraggiarsi o meravigliarsi. Educare la sua voce, sfidarla.Vincere il silenzio che lo attanaglia. E trovare una forza inaspettata, un’energia che sembra sprigionare direttamente dalla fatica. Per arrivare a scoprire qual è il senso di ogni sfida e della sua stessa vita. Esistono passioni cosí potenti da cambiarti la vita. Da rovesciarti i pensieri, le parole: del pianto, della vita e della morte.
Prendendo spunto dai temi e dai problemi con cui ci confrontiamo ogni
giorno, attraverso la lettura, Giuseppe Lupo ricollega il presente al passato e alle cause che
l’hanno provocato, rendendo piú comprensibile e meno ansioso l’orizzonte
degli eventi. La memoria del passato serve a mettere i fatti in prospettiva,
tracciare un percorso, individuare le cause e i loro effetti, fornire –
quando è possibile – un punto d’orientamento. Non c’è futuro, luminoso o
obbligato che sia, che ci salvi dal dovere di trasmettere il passato, l’infanzia – perduta o ritrovata che sia – resta per sua natura qualcosa di intimamente sanguinoso: un’età ferita», prima che tutto finisca travolto da un nuovo mondo, come presto o tardi
certamente avverrà».
E' un racconto che si legge con una commozione che dura dall’inizio alla
fine, e nella quale entrano malinconia, gioia e ammirazione. Il passato raccontato da Giuseppe Lupo è quello mitico e irrecuperabile
dell’infanzia, eroso negli anni da una diaspora di oggetti e sentimenti
il cui ricordo continua a sanguinare, perché la violenza immaginifica dell’autore opera un recupero altissimo
di emozioni infantili legate a un universo in cui le sole figure amiche
sono quelle dei propri personali mostri e di pochi, semplici ma
«fatidici» giocattoli, mentre la gelosia per la nascita della sorella continua a suscitare struggimenti e antagonismi senza fine.
In questo libro ci sono due testi semplicemente alternati; potrebbe
quasi sembrare che non abbiano niente in comune, eppure sono
inestricabilmente intrecciati, come se nessuno dei due potesse esistere
da solo, come se soltanto il loro incontro, quella debole luce che
gettano l’uno sull’altro, potesse rivelare ciò che non è mai detto
apertamente nell’uno, mai detto apertamente nell’altro, ma solo nella
loro fragile intersezione.
Uno di questi testi è interamente intimo: il silenzio delle parole, come se fossero cadute dentro una voragine. L’altro testo è un racconto di ricordi, fatto di brani sparsi, di
assenze, di oblio, di dubbi, di ipotesi, di aneddoti. Sul filo che collega le due sponde del racconto, si trova il luogo di origine di
questo libro, quei punti di sospensione in cui si sono impigliati i fili
spezzati dell’infanzia e la trama della scrittura. Il romanzo di Giuseppe Lupo è un inno all'affetto, alla
riconoscenza, a tutti quei sentimenti che ci legano gli uni agli altri. E
che ci rendono umani.
Citazioni del libro
"Ogni frase pareva un ponte sospeso sull'abisso. L'abisso era il silenzio e le parole erano appese al filo che ci penzolava sopra. Parlare era come salire su una funivia agganciata a questo filo: ci si lascia andare nel vuote e via con le lettere, una dietro l'altra."
“Non saprei calcolare quant’è durato il mio silenzio: un mese, un anno,
due… Quando i medici mi visitavano, chiedevano di cacciare la lingua
fuori. ‘Tossisci, tossisci.’ Io tossivo. ‘Fa’ due passi, vediamo come
cammini.’ E io camminavo su e giù nell’ambulatorio. Ricordo un dottore
di Bari, un gran professore che sulla fronte aveva una lampadina
infilata in una specie di coperchio di caffettiera. ‘Signora, questo
bimbo vive troppo in mezzo ai grandi. Aria aperta, aria aperta’
ripeteva, ‘la strada sarà la sua maestra’.”
“Pochi mesi ancora e Gesù manda sorellina” disse. La frase è
l’ultima che conservo di una felicità in bilico. Il mio destino stava
per cambiare, ma nessuno se ne accorgeva. In principio tutto era verbo:
poesie, quaderni, libri, banchi, lavagne e alunni in abiti di carta
crespa. Poi sopraggiunse il silenzio."
"Si erano chiuse le porte e non riuscii a sentire più nulla. Fu un
attimo, ma nelle parole che mio padre stava pronunciando, nel sorridere
silenzioso a me che andavo via – e altro non era, quel gesto, se non
amore dignitoso nel distacco – proprio in quell’attimo era come se si
spegnesse il secolo a cui appartenevamo tutti, io, la mia famiglia,
l’Appennino dov’ero nato. Il giorno dopo, a Milano, il Novecento non
esisteva più e io già ne sentivo la mancanza."
"Lambrate era alle spalle, in un oriente indimenticabile ma ormai
remoto, e a me bastava battere sui tasti della vecchia Olympia di mio
padre per cominciare a respirare un’aria d’America."