mercoledì 16 novembre 2022

RECENSIONE "IL ROMANZO DELLA VITA PASSATA" DI VINCENZO RABITO - EINAUDI

 

Il romanzo della vita passata

Testo rivisto e adattato da Giovanni Rabito

 Einaudi

2022 - Fuori collana
pp. X - 494 - € 25,00
 
Quel ragazzo spavaldo che ci guarda in copertina ha scritto uno dei libri piú memorabili del Novecento italiano. Con una lingua inventata, ricchissima e pirotecnica, in Terra matta ha raccontato la sua storia, quella di un secolo e dell'Italia intera. Era un capolavoro, l'hanno letto in tantissimi, lo ricordano tutti. Ciò che nessuno poteva immaginare è che Vincenzo Rabito, nella sua stanzetta, avesse continuato a litigare con la tastiera fino all'ultimo giorno. Scampate alla distruzione per un soffio, dimenticate in un cassetto per quarant'anni e poi raccolte dal figlio Giovanni, le pagine del secondo memoriale escono ora in un adattamento libero e personale, piú intimo e familiare. Cosí, il grande scrittore «inafabeto» ci racconta di nuovo il romanzo della sua vita. Tornando sugli episodi, cucendo, indugiando, aprendo i ricordi in scene indimenticabili, da quell'immenso cantastorie che era.

Il libro

Se c’è una vicenda editoriale che vale la pena ricordare, è quella di Terra matta. «Il capolavoro che non leggerete», cosí fu definito dalla giuria dell’Archivio di Pieve Santo Stefano: 1027 pagine fitte fitte di una lingua impossibile trasformate miracolosamente in un libro amato da tantissimi lettori, lanciando il cuore oltre l’ostacolo come si può fare soltanto quando si ha la certezza di avere tra le mani qualcosa di unico. Quel che è accaduto dopo ce lo spiega Giovanni Rabito, il figlio di Vincenzo: «Fu solo in seguito al successo di Terra matta che mi ricordai dell’esistenza di un secondo plico di dattiloscritti conservati a casa di mio fratello Turi, a Ragusa. Dopo la morte di mio padre ero stato proprio io a consegnare quel malloppo a mia cognata Lucia per preservarlo dalla distruzione. Temevo che mia madre avesse intenzione di buttarlo via, come fece d’altronde con tutto ciò che c’era nella stanzetta dove mio padre, quasi in segreto, per tredici anni aveva lavorato alla sua storia di scrittore “inafabeto”». Il malloppo sopravvissuto alla catastrofe è «un’Amazzonia espressiva» di liane aggrovigliate, sabbie mobili e piante lussureggianti. Una giungla di quindici quadernoni per un totale di 1486 pagine: il secondo memoriale. Che in questa versione, ridotta e adattata proprio da Giovanni, si apre con la parola «romanzo». Perché Vincenzo Rabito, giunto a questa sua seconda, titanica prova, ormai sapeva bene ciò che stava costruendo.

 

RECENSIONE

 

Quando uscì, nel 2007, "Terra matta" venne accolto come un libro straordinario.

Fu subito un successo letterario. Vincenzo Rabito raccontava da un posto remoto della Sicilia la storia del Novecento, vissuta ora come testimone ora come protagonista. Lo scrittore "inalfabeto", come si definiva, usava una lingua inesistente. Parole inventate e separate da un punto e virgola, stile appassionato e coinvolgente, espressioni ispirate a una compulsiva "necessità" di raccontare. Si credeva che il racconto di Rabito finisse con quel malloppo che Einaudi aveva pubblicato dopo gli interventi e la cura di Luca Ricci e Evelina Santangelo. Invece Rabito aveva continuato a scrivere, chiuso per ore in una stanzetta a martellare i tasti di una Olivetti lettera 32. Il nuovo testo è stato ritrovato e ora, a 15 anni dal primo, Einaudi pubblica un secondo volume stavolta riadattato dal figlio Giovanni. "Il romanzo della vita passata" riprende già nel titolo l'idea che Rabito seguiva nel raccontare, con un taglio autobiografico, una vita "molto desprezzata e maletrattata". 

    È proprio Vincenzo Rabito a ricorrere già nelle pagine iniziali al concetto di romanzo. "Rispetto al primo - dice il figlio Giovanni - era consapevole di essere alle prese con una prova letteraria: il racconto è più esteso e complesso, il taglio è più intimistico e personale". Stavolta si parla tanto della famiglia e dei figli. Perché Rabito sente il bisogno di tornare sulle sue storie? Intanto perché sente forte non solo la necessità ma il desiderio di raccontarle. E poi per allungare la prospettiva stessa del racconto. La prima parte si fermava al 1970. La seconda, che scrive fino a due giorni prima di morire nel 1981, si inoltra nel decennio che ha conosciuto il terrorismo e l'affare Moro ma anche l'elezione di Sandro Pertini come capo dello Stato. 

    Quel malloppo di oltre 1500 pagine era stato scritto da Rabito chiuso per ore in una stanza nella casa di Chiaramonte Gulfi piccolo paese della provincia di Ragusa. Solo dopo la pubblicazione del primo volume, diventato un testo studiato anche dalla critica letteraria, il figlio Giovanni si è ricordato che aveva recuperato un altro plico di dattiloscritti e l'aveva affidato alla cognata per evitare che potesse essere perduto. "Temevo - ricorda - che mia madre avesse intenzione di buttarlo via, come fece con tutto ciò che c'era nella stanzetta dove mio padre, quasi in segreto, per tredici anni aveva lavorato alla sua storia". In quelle pagine si riflette la vita di Vincenzo Rabito, nato nel 1899 in una famiglia molto povera di Chiaramonte Gulfi nella Sicilia sud-orientale. Per aiutare la madre vedova e sei fratelli è costretto a lasciare la scuola per lavorare nei campi, va in guerra, attraversa il fascismo, riesce a trovare un posto di cantoniere, si sacrifica per mandare tre figli all'università. Giovanni era andato a Bologna, anche lui ha avuto una vita travagliata, anche lui ha frequentato la scrittura e la poesia. È poi finito in Australia. Ma anche da lì ha continuato a seguire le tracce di un padre analfabeta diventato scrittore.

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