AVEVO DUE PAURE
La prima era quella di uccidere
la seconda era quella di morire.
Avevo diciassette anni
poi venne la notte del silenzio
in quel buio si scambiarono le vite
incollati alle barricate alcuni di noi morivano d’attesa
incollati alle barricate alcuni di noi vivevano d’attesa
poi spuntò l’alba
ed era il 25 Aprile.
(Giuseppe Colzani, partigiano)
Il 25 aprile 1945 è il giorno in cui il Comitato di Liberazione
Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l’insurrezione generale in tutti i
territori ancora occupati dai nazifascisti, stabilendo, tra le altre
cose, la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti, incluso Benito
Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato tre giorni dopo, in
seguito a un tentativo di fuga in Svizzera.
Un gesto che oggi non può essere raccontato al di fuori del contesto
storico in cui è avvenuto, ovvero una Guerra Mondiale in cui le
fucilazioni, le crudeltà e le uccisioni hanno superato di gran lunga la
misura di un’etica che, in guerra, passa sempre in secondo piano. In
questo contesto, la Resistenza italiana si inquadra nel più vasto movimento di opposizione al nazifascismo sviluppatosi in Europa, ma ha caratteristiche specifiche.
Resistenze
Si dovrebbe infatti parlare oggi di Resistenze, più correttamente,
come spiega Laura Gnocchi, che ha ideato e sviluppato insieme a Gad
Lerner e in collaborazione con l’ANPI, il progetto Noi Partigiani, Memoriale della Resistenza Italiana.
“Da un punto di vista più burocratico, quella certificata è la
resistenza armata, addestrata, a cui la qualifica è stata data con
criteri prevalentemente militari. Ma noi oggi sappiamo che le forme di
resistenza sono state tantissime: a partire dai familiari dei partigiani
che sapevano e aiutavano come potevano; le donne che, liquidate come
staffette, hanno costituito un fondamentale supporto logistico, fino ai
militari che non si sono schierati con i tedeschi e sono stati
internati. Dopo l’8 settembre sappiamo che sono stati arrestati circa
800mila soldati e alla Repubblica di Salò hanno aderito in 190/195mila” spiega Gnocchi.
Secondo i dati riportati dall’Anpi, è stato calcolato che i Caduti nella Resistenza italiana
(in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei
nazifascisti), siano stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200
rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero
combattendo almeno 40 mila uomini (10.260 furono i militari della sola
Divisione Acqui, Caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40mila IMI
(Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti.
Le donne partigiane combattenti
Le donne partigiane combattenti furono 35mila, e 70mila fecero parte
dei Gruppi di difesa della Donna. Tra esse, 4.653 furono arrestate e
torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o
impiccate; 1.070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra,
decorate di Medaglia d’oro al valor militare.
Durante la Resistenza le vittime civili di
rappresaglie nazifasciste furono oltre 10mila. Altrettanti gli ebrei
italiani deportati; dei 2000 di loro rastrellati nel ghetto di Roma e
deportati in Germania se ne salvarono soltanto 11. Tra il 29 settembre e
il 5 ottobre 1944 nella valle tra il Reno e il Setta (tra Marzabotto,
Grinzana e Monzuno), i soldati tedeschi massacrarono 7 partigiani e 771
civili e uccisero in quell’area 1830 persone. Per quella strage,
soltanto nel gennaio del 2007 il Tribunale militare di La Spezia ha
condannato all’ergastolo dieci ex SS naziste.
Le persone dietro a una definizione
Ma quello che scompare, dietro a questi numeri, è che si trattava
anzitutto di persone. Padri, madri, fratelli, sorelle, figlie e figlie,
giovani e giovanissimi, che hanno rischiato la propria vita o l’hanno
persa in nome della libertà. Per chi è nato dopo gli anni Novanta, il
partigiano evoca un immaginario associato a una persona anziana che
racconta. Ma i fatti che racconta, rimandano a un’epoca in cui il
portatore (o la portatrice) della memoria poteva avere tra gli 11 e i 30
anni.
Prosegue Laura Gnocchi: “Io e Gad Lerner, non essendo storici,
abbiamo avuto la libertà di narrare la storia dei partigiani e delle
partigiane che abbiamo incontrato attraverso il loro vissuto, le loro
emozioni senza l’obbligo di contestualizzare, raccontando soprattutto
l’impatto emotivo degli eventi su persone che allora potevano essere
giovanissime. Ragazzi e ragazze che scelsero, in un momento in cui erano
appena adolescenti, da che parte stare. Questo progetto è nato per
tramandare la memoria, ma anche per rendere omaggio a queste persone“.
L’archivio
Il prezioso archivio, avviato nel 2019 prima della pandemia Covid che
ha falcidiato questa generazione, è ancora in divenire. Ha l’obiettivo
di raccogliere il massimo numero di testimonianze dei protagonisti della
Resistenza, comprese le molte rilasciate in precedenza e disseminate in
vari archivi. Ha visto pubblicare due libri da Feltrinelli, un podcast,
e soprattutto ha reso accessibili centinaia di volti di partigiane e
partigiani con le loro storie di vita raccontate in prima persona.
Partiamo da qui, dunque, per onorare questa giornata. Partiamo dalle
storie e dai volti di chi ha reso possibile la Liberazione, di chi ha
dato un contributo fondamentale, di chi forse non aveva la potenza
militare per vincere una guerra, ma aveva lo spessore civile per dare
vita a una Repubblica e a una Costituzione che, ancora oggi, mostra il
suo valore e la solidità dei principi che la reggono. Dall’Archivio
curato da Laura Gnocchi e Gad Lerner, ecco le storie di alcuni
partigiani e partigiane da non dimenticare.
Carlo Orlandini
Nome di battaglia “Bingo”
Nato
a Trento il 19 luglio 1927. Nel giorno in cui cadde Mussolini, 25
luglio 1943, aveva appena compiuto 16 anni e si trovava in campeggio a
Bardolino, con altri ragazzi della sua età. Erano premilitari, come si
diceva all’epoca, uno dei passaggi obbligati prima della chiamata alle
armi che arrivava ai 21 anni. Racconta di una preparazione fisica e
spirituale alla guerra che cominciava dall’età di 8 anni, prima con
l’Opera Nazionale Balilla, poi con i Fasci giovanili di combattimento.
Successivamente da premilitare si passava ad avanguardista e tra gli
impegni c’erano lunghi campi estivi come quello di Bardolino in quei
giorni. Marce, addestramento, pulizia delle armi, alzabandiera. Alla
notizia dell’arresto del Duce, Orlandini racconta di come cominciò a
serpeggiare inquietudine nel campo, e il giorno dopo il comandante e il
suo vice erano fuggiti. I ragazzi erano stati lasciati soli. Alcuni
rientrarono a casa, ma Orlandini, assieme ad altri coetanei, decise di
rimanere al campo e vedere cosa sarebbe successo. Vennero raggiunti da
alcuni soldati tedeschi, una divisione delle SS che scendeva dal
Brennero e si fermarono qualche giorno con loro. Una sera, davanti a un
fuoco e dei bicchieri di vino, i soldati raccontarono di essere stati a
Varsavia durante l’incursione al ghetto dove erano stati segregati gli
ebrei. Il racconto delle crudeltà commesse da quel soldato, smosse la
coscienza di Orlandini.
Pochi mesi dopo, con il proclama di Badoglio dell’8 settembre, il
giovane lasciò la famiglia per salire su un treno (un treno che nella
confusione di quei giorni italiani non sapeva letteralmente dove
portasse) per prendere parte alla difesa con gli Alleati. Tra le varie
missioni a cui prese parte, aiutò dei soldati francesi con divisa
tedesca a disertare, fuggendo attraverso il Po. Fu arrestato dai
fascisti, ma i sospetti su di lui non erano fondati su alcuna prova. E
si salvò.
Marialucia Vandone (detta Cicci)
Quella
di Cicci Vandone è una storia d’amore oltre che di lotta. Nata a Milano
il 26 Febbraio 1923, ha partecipato alla Resistenza con il fidanzato
Giorgio Paglia, “il Tenente Giorgio”, ucciso assieme ad altri sette
compagni il 21 novembre 1944 e insignito di Medaglia d’oro. Nel 1940,
Cicci era una ragazza piena di sogni e ambizioni. aveva appena concluso
l’esame di maturità, aveva appena avuto l’esperienza del primo bacio e
aveva ottenuto l’ammissione all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma.
A una festa conobbe Giorgio Paglia, allievo militare, originario di
Bergamo. Fra i due fu colpo di fulmine e iniziarono a frequentarsi.
Giorgio, come molti ragazzi della sua età, aveva dovuto interrompere gli
studi per arruolarsi, ma soprattutto dopo l’armistizio cominciò a non
fare troppo mistero del suo vero pensiero sulla guerra. In quei giorni i
ragazzi in divisa che non combattevano con i tedeschi rischiavano di
finire nei campi di lavoro in Germania, così Cicci e Giorgio si recarono
alla Stazione Centrale con una sacca di vestiti civili e appena
vedevano un ragazzo in divisa dall’aria smarrita, Giorgio lo trascinava
in bagno, gli dava abiti e documenti e lo aiutava a scappare.
Nel 1944, di fronte alla scelta di arruolarsi nella Repubblica
Sociale, Giorgio decise di fuggire in montagna e raggiungere i
partigiani. Per diverso tempo i due non si videro, salvo una piccola
incursione di Giorgio a Milano, già tradito e in pericolo. Raggiunse
Cicci e le affidò una missione da staffetta che lei non esitò a
raccogliere. Fu l’ultima volta in cui si videro. Pochi mesi dopo, fu
catturato e fucilato.
Mario Candotto
Nato
a Porpetto (UD) il 2 Giugno 1926, Mario Candotto era un operaio dei
Cantieri navali di Monfalcone, e poi un partigiano deportato nel lager
di Dachau. Quando si reca nelle scuole per raccontare quegli anni e
lasciare la sua testimonianza, comincia il racconto con queste parole: “Quello che vi racconto è pura, pura verità. Ma se non l’avessi vissuto stenterei a crederci anch’io“.
La famiglia di Mario è stata falcidiata per l’impegno nella
Resistenza. Due fratelli, morti in combattimento come partigiani. Il
padre morto a Dachau, dove era stato deportato insieme a lui. La mamma
morta ad Auschwitz, dove era stata deportata con le due sorelle di
Mario, sopravvissute come lui.
Il primo della famiglia a fare i conti con il fascismo fu il
fratello, arruolato nella guerra in Jugoslavia nel 1941, da cui tornò
con un racconto che concluse con due parole: “Mi vergogno“.
Dopo l’armistizio, stanchi della povertà causata dalle guerre volute dal
regime e delle angherie subite come lavoratori, la maggior parte degli
uomini, operai nelle fabbriche della zona, decise di coordinarsi per
resistere all’occupazione tedesca e andare sulle montagne. Quella che si
formò viene ricordata come la prima vera e propria brigata partigiana,
di cui faceva parte anche Ondina Peteani, spesso segnalata come la prima
staffetta partigiana. Ma la Brigata Proletaria, così autonominatasi,
dovette soccombere pochi giorni dopo, male armata e male addestrata, in
uno scontro con i nazisti a Gorizia.
I pochi sopravvissuti si rifugiarono in un paesino nel Carso,
unendosi ai ben più organizzati partigiani sloveni. Nel frattempo, la
soffiata di un compaesano portò uno squadrone fascista davanti alla casa
dei Candotto, da cui portarono via molte persone, oltre ai Candotto,
per deportarle. Mario arrivò al campo la notte del suo diciottesimo
compleanno, e vi rimase per circa un anno. Una volta tornato, fu
difficile per lui ritrovare serenità. Quando provava a raccontare la sua
storia e i giorni nel campo, molti non gli credevano o lo liquidavano
dicendo che ognuno aveva avuto le sue, in guerra. Fu per questo che
decise di impegnarsi per tutta la vita a tramandare la sua
testimonianza: affinchè non si perdesse il ricordo del sacrificio della
sua famiglia in nome della libertà.
Maria Santiloni Cavatassi
Otto
figli: un maschio e sette femmine. Per i genitori di Maria Cavatassi,
contadini mezzadri, era difficilissimo farsi affidare un terreno, perchè
con tutte quelle femmine si pensava che avrebbero reso troppo poco. Nei
contratti di mezzadria, le donne venivano conteggiate meno della metà
di un uomo. Perciò anche quando ottenevano un contratto, e dovendo
accettare condizioni economiche durissime, la famiglia viveva in estrema
povertà. Eppure non rimase insensibile alle ingiustizie che subivano
altri sfortunati come loro.
Quando i partigiani e i soldati fuggiaschi cominciarono a presentarsi
alla loro porta chiedendo aiuto, la famiglia decise tutta insieme di
rispondere alla richiesta. Fu la madre a decidersi per prima,
convincendo il padre, e insieme consultarono i figli, e tutti si
assunsero la responsabilità del pericolo che avrebbero corso. Ospitarono
due soldati fuggiaschi, nascondendoli in una grotta scavata dal padre
di Maria, e diversi partigiani di passaggio. Condividevano il poco cibo
che avevano, e tutti dormivano su assi di legno e pagliericci, nessuno
aveva un materasso.
Quando la guerra finì, per Maria cominciò una nuova vita in cui mise a
frutto ciò che aveva imparato con la Resistenza e l’importanza di
lottare contro le ingiustizie. Giovanissima (non aveva ancora vent’anni)
e senza titoli di studio, si unì alle lotte sindacali contadine, fino a
diventare responsabile di Federmezzadri, con cui riuscì a strappare un
contratto più dignitoso per i mezzadri. Sposò poi un funzionario del
Partito Comunista e partecipò alla fondazione dell’Udi, Unione delle
Donne Italiane.
Gustavo Ottolenghi
Nome di battaglia “Robin”
Nel
1943, Gustavo aveva solo 11 anni. la sua famiglia era di origine
ebraica e suo padre, che era vicecomandante della Polizia a Torino, con
le leggi razziali era stato estromesso dal suo lavoro. Per sfuggire ai
bombardamenti, la sua famiglia si era rifugiata nel Monferrato. Quando,
dopo l’armistizio, i rastrellamenti si fecero sempre più capillari e
crudeli, i suoi genitori presero una difficile decisione: “Se ci trovano insieme ci portano via e ci ammazzano. Tutti e tre. Dobbiamo dividerci“,
disse suo padre. Così ogni membro della famiglia si unì a una diversa
brigata partigiana, e il piccolo Gustavo fu affidato a dei partigiani
del Monferrato amici dei suoi genitori.
Con loro, Gustavo svolse il compito della vedetta, in cima ai
campanili o alle torri, oppure trasportò messaggi infilati dentro ai
tacchi dei suoi zoccoli di legno. Nel frattempo, si preparò a superare
l’esame di fine anno scolastico, aiutato dai giovani partigiani, molti
dei quali laureati. Venne condotto da loro a Torino, per superare
l’esame, e quando durante l’appello il suo nome suscitò un certo
scompiglio, capì di non doversi far riconoscere. Un professore, per lui
sconosciuto, lo portò fuori dall’aula, gli scrisse sul libretto
“promosso” e lo incitò a fuggire. Gli aveva salvato la vita.
Poi venne il 25 aprile, e Gustavo, con la divisione Monferrato cui
era stato affidato, rientrò a Torino per i festeggiamenti. Ricordò le
parole di suo padre: “Quando tutto sarà finito, ci ritroveremo al monumento del Duca d’Aosta“.
Il piccolo Gustavo cominciò a recarsi lì, un giorno dopo l’altro,
chiedendosi se i suoi genitori fossero ancora vivi come lui. Il terzo
giorno, lo raggiunse suo padre. Il quarto giorno arrivò la madre. “Eravamo di nuovo tutti e tre insieme, come davanti al tavolo della cucina. Non dovevamo più scappare però. Eravamo liberi“.
***
Le storie sono tratte dal libro “Noi partigiani. Memoriale della
Resistenza italiana”, di Laura Gnocchi e Gad Lerner, Feltrinelli 2020.
La versione per ragazzi: “Noi, ragazzi della libertà. I partigiani
raccontano”, a cura di Laura Gnocchi e Gad Lerner, illustrazioni di
Piero Macola, Feltrinelli 2021.
Le foto e le video-testimonianze sono reperibili nel sito del progetto.
La foto usata per la copertina, appartiene al partigiano Luigi Scanferlato, nome di battaglia “Gigi”.