Il 10 dicembre il norvegese riceverà il Nobel.
In quasi tutti i libri di Jon Fosse c'è un uomo che prega. Quasi sempre quest'uomo è un pittore, o meglio, è un pittore che crede in Dio, un credente la cui fede però attiene a qualcosa di più di una religione, direi piuttosto a un sentimento panico nei confronti dell'esistente.
Questo artista, tutt'altro che famoso, ma abbastanza noto da sopravvivere grazie ai suoi quadri, ogni volta si aggrappa ad un rosario come minuscolo salvagente. Il suo è un afflato verso un Dio tutt'altro che onnipotente, un Dio che non ha creato il cielo e la terra e noi umani secondo un disegno imperscruitabile, ma è sceso accanto a noi, si è abbassato indossando le nostre sembianze e la nostra carne per condividere il dolore e la gioia (poca), di quest'avventura terrestre.
Il protagonista dei romanzi di Fosse in genere non è un uomo particolarmente disperato, è solo consapevole, in ogni istante, dell'intrinseca fragiltà che scorre nelle vene del mondo, nelle cose che ci circordano e nei rapporti che ci legano gli uni agli altri. Il suo Dio non può promettere nessun risarcimento, nessuna prospettiva compensativa alla sofferenza terrena, nessun aldilà da vagheggiare, ma neppure si sottrae, anzi, il Dio pregato da Fosse è sempre presente e non nasconde la sua impotenza di fronte al male che ci vessa.
Questo, alla fine, è il suo modo di amarci: l'amore di dio sta nel vivere con noi lo sbigottimento di fronte alla malattia incurabile di un bambino, ad esempio, e a tutte le atre sciagure che ci fanno sentire la vita, come profondamente ingiusta.
Solo sotto questo profilo Dio è infinito, lo è cioè in quanto infinitamente amorevole. Questa è la caratteristica principale dell'opera di Fosse: la frontalità. Lo scrittore norvegese si getta nelle questioni capitali dell'esistenza già dalla prima frase e continua praticamente fino all'ultima, assecondando un flusso di pensieri che sgorga senza un vero inizio nè una vera fine dentro una storia con pochi personaggi, quasi sempre gli stessi, che si avvitano e si sdoppiano in destini pieni di specchi fino a diventare il brontolio che accompagna il lettore, la sua stessa voce interiore. Proprio perchè dalle prime parole del libro si precipita in medias res, tutto ciò che viene raccontato, le azioni dei personaggi, i dialoghi, l'ambiente che li circonda (una Norvegia abbozzata eppure folgorante), tutto è fagocitato da un monologo ininterrotto che si priva di pause e di punti fermi.
Da quanto detto si distinque in arte Malanchonia, un dittico che esce ora in un unico volume presso La Nave di Teseo, un doppio romanzo del 1995, dove la punteggiatura è ancora governata da un narrato tutto sommato affidabile (ma già sulla via del delirio), identificato nella prima parte con il pittore protagonista, in questo caso un artista relamente vissuto, Lars Hertervig, uno dei più grandi paesaggisti dell'800, qui colto nell'estenuante ruminazione della sua vicenda umana, osservata dal letto del suo ultimo giorno, quello che precede il suicidio.
Il pittore di Melancholia è un derelitto segnato dalla follia, un uomo vissuto di elemosina finchè non è stato rinchiuso in manicomio, ma non per questo manca della lucida franchezza, della frontalità di cui sono dotati i protagonisti del romanzi successivi.
Una franchezza che richiama anche Heerervig alla religiostà delle cose ultime: la bellezza di un cielo o di un seno femminile, l'eleganza di una giacca color malva e anche sì, sempre, la tentazione della carne. Tutte le verità che sprizzano, ad esempio, dai dialoghi memorabili di Hertervig con il sorvegliante Hauge. Nella seconda parte come Vidme, scrittore fallito, secondo la voce narrante, a tratti in terza persona, per non aver colto la possibilità di riscattarsi scrivendo un libro su Hertervig, colui che ha saputo <<cavar fuori alcuni segreti umani che si nascondono nelle nuvole>>. Vidme è uno dei primi alter-ego che poi affolleranno l'opera di Fosse, un trentenne che detesta la chiesa norvegese eppure si sente costretto a cercare un prete (e finisce per trovarne uno, donna). Poi, d'un tratto, ecco che prende la parola la sorella del pittore pazzo, in un monologo di un centinaio di pagine che da solo vale il Nobel.
A differenza dei romanzi successivi, dove trionferanno le sigarette, in Melancholia, c'è una pipa, oggetto di culto, forse simbolo alchemico, come la bilancia nella famosa incsione di Durer. Ma per il resto questo romanzo è in piena continuità con le opere che seguiranno, mi riferisco soprattutto ai tre volumi di Settologia, dove il pittore Asle, stavolta a noi contemporaneo e frutto dell'immaginazione dell'autore, passa in rassegna la sua vita mentre la vive, cucendo in una spirale di pensieri presente e passato, vivi e morti, piccole gioie del quotidiano insieme alla frustazione e al rancore per i giorni che non torneranno.
Sono parte della continuità nei romani di Fosse. Una è la quotidianità spartana dei protagonisti. La stanza in affitto, la mensa frugale, il dialogo perpetuo con il proprio sè alienato in una figura autonoma, un ater-ego sbalzato sulla superficie della pagina come un bizzarro altorilievo, un sosia uscito dallo specchio e messosi in cammino tra le cose per conto proprio.
Un'altra continuità è la mancanza, il dolore di un'assenza e la sua sempre incompleta elaborazione: i protagonisti di Fosse sono vedovi o comunque sono stati lasciati dalla donna che amavano. Una terza continuità è l'immanenza dei morti, come non pensare ai Dublinesi di Joyce? Presenze di cui avvertiamo il respiro, a cui non smettiamo di parlare accontentandoci delle loro risposte silenziose.
Ma Asle è attanagliato da un'accidia che si rivela paradossalmente creativa, se non altro per garantirgli una produzione piuttosto costante di quadri informali dotati di una malia irresstibile sia per l'amico gallerista che per gli acquirenti.
Anche Asle è triste come Hertervig, ma tutt'altro che pazzo. Il melanconico è triste perchè vede più lontano. Il nero che offusca la sua visione, è in realtà un prsima ottico che gli consente di osservare la vita senza ornamenti. Il melanconico è una figura alata apparentemente prigioniera della sua depressione. A guardarlo bene, è più libero del più scatenato degli ottimisti. Asle, Hertervig, Vidme, per non parlare del vecchio di Mattino e sera, sono tutti personaggi a servizio della frontalità poetica e brutale che caratterizza la scrittura di Fosse.
E' uno scontro a viso aperto con la vita. Una vita ridotta all'osso, al punto che la giornata di un'artista è pressochè indistinguibile da quella dei suoi compaesani, pescatori, vecchie sorelle, docili vicini di casa. Per questo, forse, i romanzi di Fosse sembrano opere corali benchè siano vorticosi flussi di voci monologanti.
Inuile perderci in trame troppo sofisticate, sembra dirci l'autore, visto che l'unica cosa che ci preme è questa: perchè siamo vivi e poi a un certo punto non lo siamo più. Da qui nasce una prosa che, nel suo canto alla ripetizione, si offre al lettore come una sterminata preghiera, un'incessante variazione sul tema che fa pensare ai vortici ossessivi e calcolatissimi delle composizioni di Steve Reich o Philip Glass, ma anche alla missione di un Hokusai della scrittura, un artista che non teme la ripetizione, ma anzi, sa che solo attraverso quell'inanellamento infinito di prove la verità piano piano accetterà di concedersi nei tratti del mondo materiale: un'onda, un vulcano, un pittore che a mattina inoltrata non è ancora riuscito ad alzarsi dal letto.
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