mercoledì 29 marzo 2023

RECENSIONE "TEMPESTA" DI CAMILLA GHIOTTO - SALANI

 Non è mai troppo tardi per imparare a essere figli, 

né per riannodare la memoria al presente.

Tempesta

Camilla Ghiotto

'Tempesta', l'esordio nella narrativa di Camilla Ghiotto

Per Salani, un padre partigiano e una figlia ventenne di oggi

partigiano e una figlia ventenne di oggi


 

Il libro

Renzo e Camilla non sono un padre e una figlia qualunque. Novantadue anni lui, diciassette lei, una vita intera li divide, o anche più d’una. Di quest’uomo che aveva già i capelli grigi quando è nata, che non ha mai visto giovane e forte come i papà delle sue amiche, Camilla si è sempre un po’ vergognata. E così, quando Renzo si ammala gravemente e viene ricoverato in una clinica dalla quale è presto chiaro che non tornerà più a casa, Camilla ha l’inconfessabile sensazione di potersi finalmente tuffare verso il futuro, senza voltarsi indietro. Mala malattia del padre la mette davanti alla consapevolezza che non si può costruire niente senza aver prima fatto i conti con le proprie radici, che non puoi perdere qualcuno senza aver provato a conoscerlo, e che forse le rimane ancora un po’ di tempo per essere davvero sua figlia. Così inizierà a cercare nel passato per scoprire il ragazzo che Renzo è stato tanti anni prima, quando la guerra infiammava l’Italia, i giovani salivano in montagna, sparavano, soffrivano la fame e il ghiaccio, cercando ogni giorno e ogni notte di dare un senso alle loro azioni. Il tempo in cui Renzo era ‘Tempesta’, comandante di una brigata partigiana. Per Camilla, riappropriarsi della storia familiare e di una memoria collettiva che non ha smesso di vibrare significherà trovare una nuova prospettiva per aprirsi al mondo, agli altri e all’amore. Con una scrittura di inconsueta sensibilità, capace di tendere agguati e rivelare sempre nuovi angoli dell’essere, Camilla Ghiotto dà voce a una generazione consapevole di dover combattere battaglie diverse da quelle del passato, ma non meno decisive. Perché la libertà non si conquista mai una volta per tutte.

 

 RECENSIONE

E' tutta nello spazio della resistenza l'anima di 'Tempesta', il primo romanzo di Camilla Ghiotto, 23 anni, che è riuscita a dare voce al rapporto con suo padre, il comandante 'Tempesta' di una brigata partigiana, e alla sua storia di battaglie riscoperta in un manoscritto trovato alla sua morte.

Uno scritto prezioso ambientato tra il '44 e la fine della guerra che è stata la scintilla di questo romanzo, pubblicato da Salani - Le Stanze, in cui le pagine del presente si alternano con quelle di quel diario. Un padre che Camilla non ha mai conosciuto giovane, che quand'era piccola si vergognava fosse così diverso da quello delle sue compagne e che ora è il maestro che porta dentro di sé. 


    "Sono nata quando mio padre aveva 74 anni. Ho voluto raccontare cosa significasse una relazione padre-figlia così anomala. Lui era verso la fine della sua vita, passava le giornate immobile, a leggere, seduto sul divano mentre la protagonista del libro è una ragazza nel pieno della gioventù e dell'azione e avrebbe bisogno dell'esatto opposto, di ritmo, di movimento. E' un po' come il paradosso di Achille e la tartaruga, viaggiano a due velocità diverse, il loro rapporto è composto di sguardi e osservazioni reciproche, ma poi nessuno dei due fa quel passo verso l'altro per riuscire a conoscersi veramente. Infatti lei lo conoscerà meglio dopo la sua morte" racconta la scrittrice esordiente che è nata a Vicenza e ora vive a Roma dove sta per laurearsi in filosofia. 


    Come ha trovato i manoscritti? "Mio padre scriveva molto e dopo la sua morte ho trovato moltissimi testi tra i quali questo manoscritto. Molte di queste vicende le aveva raccontate a me e a mia madre. Le parti del libro ambientate durante la guerra sono così come lui le ha lasciate, scritte già in terza persona.

 
    Aveva raccontato l'anno che ha trascorso da partigiano. Avevo 17 anni quando li ho trovati, non li ho letti subito, ma quando avevo 19-20 anni e la cosa che mi ha colpito è che lui in quel periodo che racconta aveva 19 anni, la mia stessa età. E' stato come conoscerlo da giovane per la prima volta e, dal punto di vista storico, ho potuto scoprire il periodo della resistenza attraverso i suoi occhi". Il manoscritto "era nella sua ventiquattrore, dove teneva le cose più importanti per lui, insieme al Discorso sul metodo di Cartesio e all'Iliade che portava sempre con sé" racconta Camilla del padre che amava molto l'Argentina dove ha vissuto 20 anni. "Ci è andato alla fine della guerra dove ha fatto moltissimi lavori e ha conosciuto, con suo fratello giornalista, Borges e Che Guevara che in un incontro al confine con la Bolivia gli ha chiesto tra l'altro anche della resistenza italiana e del metodo di lotta" diceva.

 
    Romanzo sulla libertà, 'Tempesta', che sarà presentato l'11 marzo alle 18.00 alla libreria Risvolti a Roma, è stato un modo per Camilla Ghiotto di confrontarsi con il passato e di farsi delle domande sul presente. "Le sfide della mia generazione sono diverse da quelle di mio padre, ma c'è un coraggio anche nella sfiducia che ci circonda che io ammiro molto, anche nei ragazzi più piccoli di me. Certo siamo impauriti. Credo che la paura faccia parte comunque del momento in cui si diventa grandi. E' un po' come la linea d'ombra di Conrad in cui tutto luccica di promesse, tutto sta per succedere e senti che dipende veramente da te. Ma in questa generazione c'è anche una forte predisposizione all'ascolto reciproco e questo alla fine trasforma quella paura in coraggio" sottolinea. 


    "Il significato di resistere, anche dopo aver letto questi scritti di mio padre, credo sia trasversale, penso non appartenga solo a quella precisa epoca storica ma che possa sempre essere un modo di esistere" dice Ghiotto che ci tiene a precisare che 'Tempesta' "è un romanzo, non un diario personale in cui ha incontrato suo padre come non era mai accaduto".

 

martedì 28 marzo 2023

ARTICOLO PER GIORNALE/RIVISTA "I PROFESSORI INDEBOLITI. LA SOLITUDINE IN CLASSE".






 Il malessere profondo dei docenti privi di autorità e inascoltati.

<<La nostra competenza è inutile. Non abbiamo più ragion d'essere>>.

I professori indeboliti. La soliudine in catteda.


Quante volte lo abbiamo sentito: <<Ci deve pensare la scuola>>. In occasione di qualunque caso di cronaca che riguardi gli adolescenti, dalle baby gang al bullismo, dalla lotta alla droga a una educazione civica che latita. Ma nessuno pensa alla scuola, salvo nelle annuali ricorrenze, come la maturità, quando il discorso viene declinato comunque in modo tecnico le tracce di esame, le novità. 

La scuola è scomparsa anche dai radar della politica. Dopo un biennio di discussioni spesso aspre sulla Buona Scuola, il nuovo governo l'ha messa in secondo piano, oscurata da altre priorità, che si chiamino immigrazione, o reddito di cittadinanza.

Quando c'è da tagliare, quattro miliardi negli ultimi cinque anni secondo i sindacati, meglio il silenzio. E così anche i numeri sugli abbandoni dei docenti passano senza lasciare traccia, nonostante qualifichino la spirale di disamore e frustazione che da troppo tempo, vent'anni almeno, avvolge gli insegnanti, l'unico elemento fisso di un passaggio umano che si rinnova ogni settmbre.

La scuola è l'ultimo luogo dove gli italiani condividono una esperienza comune. Ma nessuno sa più cosa succede davvero nelle aule scolastiche, e forse non interessa neppure saperlo.

Gli ostacoli amministrativi e la burocrazia hanno fatto vedere le stelle, non solo in senso figurato al lato più debole del triangolo insegnante-alunno-genitore. C'è un malessere più profondo, identitario che colpisce anche chi dal proprio modo di insegnare ha ottenuto riconoscimenti importanti.

<<Con gli anni realizzi che le tue competenze non servono. E hai sempre meno tempo a disposizione. Mentre parli, dopo dieci secondi ti accorgi che qualche alunno distoglie lo sguardo. Gli effetti sui cellulari, della connessione perpetua. Ma tanto non importa. Perchè ormai, il lavoro è mirato sulle nostre spalle. La prima cosa è evitare i ricorsi, stare attenti al pericolo della culpa in vigilando. E così perdiamo ogni giorno di più la nostra ragion d'essere>>.

La reputazione sociale degli insegnanti italiani ormai, è certificata sulla loro pelle. Come è potuto accadere? Come siamo potuti passare dagli austeri maestri di Collodi e dal maestro Manzi a questo stato di prostazione?

<<In un sistema integrato con il mondo del lavoro, la scuola non deve essere un luogo fatto solo per studiare, ma anche per conoscere se stessi>>.

domenica 26 marzo 2023

RECENSIONE "LA PIENA. BLACKWATER I." DI MICHAEL McDOWELL - NERI POZZA

Pubblicata esattamente quarant'anni fa negli Stati Uniti, arriva adesso per la prima volta in Italia la saga in sei volumi di Michael McDowell, scrittore scomparso nel 1999, amico e collaboratore di Stephen King, voce originale del Southern gothic horror. (Il gotico sudista (dall'inglese Southern Gothic) è un sottogenere della letteratura gotica statunitense che si svolge negli Stati Uniti meridionali).

LA PIENA. Blackwater I

Michael MCDowell 
NERI POZZA 

Collana: Beat Edizioni

Pagine: 256 - Prezzo:9,90

Tradotto da: Elena Cantoni


 
 
 
 
 
 
 
Il libro
 
1919. Le acque nere e minacciose del fiume sommergono la cittadina di Perdido, Alabama. Come gli altri abitanti, i ricchissimi Caskey, proprietari di boschi e segherie, devono fronteggiare il disastro provocato dalla furia degli elementi. Ma il clan, capeggiato dalla potente matriarca Mary-Love e dal figlio devoto Oscar, dovrà anche fare i conti con un’apparizione sconvolgente. Dalle viscere della città sommersa compare Elinor, donna dai capelli di rame con un passato misterioso e un oscuro disegno: insinuarsi nel cuore dei Caskey.


Michael MCDowell MCDowell

Michael MCDowell (1950-1999) è uno scrittore americano che ha pubblicato oltre trenta romanzi e scritto per la televisione e il cinema (Beetlejuice e Nightmare before Christimas).

 

I LIBRI

 

 

 

LA GUERRA. Blackwater IV

Michael MCDowell

1938. È l’alba di una nuova èra per il clan Caskey e nulla sarà mai più come prima. La determinazione di Elinor finalmente dà i suoi frutti. I nemici di ieri diverranno gli amici di domani e i mutamenti giungeranno da luoghi inaspettati. Anche per il mondo si apre una nuova èra, portatrice però di pericolo e distruzione: il conflitto in Europa farà affluire sangue nuovo a Perdido. Nella proprietà dei Caskey, gli uomini vanno e vengono. Come marionette che non sanno di essere appese a un filo. 










 
RECENSIONE

La mattina di Pasqua del 1919 la cittadina Perdido, in Alabama, è quasi sommersa da una piena: invasa dall'acqua dei due fiumi, il Perdido e il Blackwater, alla cui confluenza sorge. In questo scenario apocalittico e desolato, la presenza di un essere umano sembra un miracolo. E' così, come un'apparizione salvifica, che Elinor Dammer fa il suo ingresso nella saga letteraria Blackwater.

<<L'acqua nera lambiva languida i muri di mattoni del municipio e dell'Osceola Hotel, ma per il resto era immobile e silenziosa>>. 

Lì, in una camera d'albergo risparmiata dal disastro, Elinor è seduta sul letto, aspettando (forse) di essere salvata.
 
<<La prima volta che ho guardato dalla finestra lei non c'era. La stanza era vuota>>.

Osserva il suo salvatore, gettando una luce ambigua sulla scena.

<<Ero qui>>, risponde Elinor.

L'apparizione della donna segna la rinascita del paese e cambia il destino della famiglia Casey da cui viene accolta. Elinor è una donna <<alta, magra e pallida>>, i capelli <<di un rosso ruggine>> e <<la postura eretta e molto bella>>, è arrivata in città per fare l'insegnante ma è stata colta di sorpresa dalla piena e non ha sentito l'invito a lasciare il paese per mettersi in salvo: si capisce che nasconde misteri legati al suo passato, alla sua persona, alla sua storia; e si intuisce che sembra avere un rapporto speciale con gli elementi della natura, in particolare l'acqua ...

Personaggio ammaliante e dalla forza magnetica è Elinor, che incolla il lettore alla pagina prima, al romanzo poi, e infine alla saga che si compone di sei libri. La serie Blackwater esce ora per la prima volta in Italia a quarant'anni dalla pubblicazione negli Stati Uniti, dove apparve nel 1983; e forte del successo inaspettato ottenuto l'anno scorso in Francia, dove ha venduto 360 mila copie in tre mesi.
 
La trama si muove nell'arco di alcuni decenni, il primo libro si apre nel 1919,  l'ultimo nel 1958, e racconta la vita di una famiglia e di una comunità radicate nel profondo Sud degli Stati Uniti, dove è il colore della pelle a fare la differenza tra giusto e sbagliato. (Già raccontato da Harper Lee nel Buio oltre la siepe).

Il primo volume, La piena, si apre con una Nota dell'autore che precisa:<<La città di Perdido esiste davvero, in Alabama, e nel punto esatto in cui l'ho collocata, anche se nè oggi nè mai ha avuto gli edifici, la geografia o gli abitanti che le ho attribuito nel racconto. I fiumi Perdido e Blackater, inoltre, non confluiscono l'uno nell'altro. Ciò nonostante, oso dire che i paesaggi e le persone che descrivo non sono del tutto immaginari>>. 

In McDowell i motori dell'agire sono amore, odio, rivalità e vendetta. Dice al riguardo:<<La vendetta è un'emozione molto importante, ma funziona realmente solo nei libri, non nella vita. Il che probabilmente spiega perchè è così piacevole vederla accadere in un romanzo>>.

Le spinte verso il cambiamento in un orizzonte che sembra immobile partono e passano in prevalenza dalle figure femminili: oltre a Elinor, ci sono la matriarca Mary-Love, poi Sister, Queenie, Grace, Miriam, Frances (tutte con vincoli di parentela tra loro), che insieme compongono una galleria di donne formidabile per varietà, ricchezza di sfumature e profondita psicologica. 

McDowell dice:<<Trovo che le famiglie siano violente, oppressive, manipolatrici ... e per tuti questi motivi sono anche particolarmente interessanti>>.
 
Il  romanzo coltiva un lato oscuro e un sentire profondo che percorrono la saga di Blackwater in cui è ben viva una dimensione ancestrale e si fa sentire potente l'idea di una natura indiffrente al destino e ai dolori degli uomini.

Un'avvertenza che regala al lettore un effetto di spiazzamento: l'azione si svolge in un luogo vero, ma al tempo stesso reinventato; l'intreccio narra di personaggi di fantasia, ma non così lontani dal reale e non del tutto improbabili. Il risultato alla lettura è una sensazione straniante, talvolta sconfinante nel disagio e nella paura, che risulta essere un elemento di forza dell'intera storia. Nella trama alla dimensione realistica se ne affianca talvolta una soprannaturale, magica, che fa accadere ciò che non ti aspetti o viceversa non fa accadere ciò che ti aspetti.

L'edizione italiana rispecchia i desidiri dell'autore: sei volumi in edizione economica, facili da portare con sè, da maneggiare e con un costo alla portata di tutti.

<<Sono uno scrittore commerciale e ne sono orgoglioso - diceva di sè. Sto scrivendo cose da mettere in libreria il mese prossimo. Penso che sia un errore provare a scrivere per i secoli>>. Bastano poche pagine allo scrittore americano Michael MCDowell (1950-1999) per gettare l'esca della storia al lettore che non può fare altro che abboccare all'amo.

L'edizione italiana, nella traduzione dall'inglese di Elena Cantoni per Studio Littera, esce da Neri Pozza, nella collana <<Beat>> per il pubblico di ogni età: volumi in brossura in un formato speciale, più piccolo, tascabile (cm 10,8x16,6). A caratterizzare e impreziosire ogni romanzo in maniera diversa è la copertina, scintillante, con lamine metallizzate e rilievi in cui figurano elementi centrali del relativo capitolo della saga. Le cover, comuni all'edizione francese, sono opera dell'illustratore spagnolo Pedro Oyarbite, il cui stile fa propri elementi del fumetto, del tatoo e del mondo dei bikers (richiama la decorazione di motociclette e caschi).

 
 
 
 
 
 
 

sabato 25 marzo 2023

RECENSIONE "TACCUINO DELLE METAMORFOSI" DI MARCO DI DOMENICO - CODICE EDIZIONE

Marco Di Domenico
Taccuino delle metamorfosi

CODICE Edizioni

Varia · Biodiversità · Biologia · Evoluzionismo

Euro: 21,00 - Pagine: 292
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il libro 
 

Perché scrivere un libro divulgativo sulle metamorfosi animali? Innanzitutto perché non c’era. Ma il motivo principale nasce da un pensiero di qualche anno fa: se chiedessimo a delle persone di associare un nome all’espressione metamorfosi animale, la stragrande maggioranza citerebbe di getto il bruco e la farfalla. Qualcuno potrebbe spingersi fino al girino e alla rana. La realtà però è ben più complessa, perché la metamorfosi non è affatto un’eccezione nel mondo animale: è la regola. La ritroviamo in buona parte degli insetti e degli invertebrati marini, in schiere di parassiti, in moltissimi pesci e in tutti gli anfibi. Quasi tutti gli animali, insomma, hanno due o più vite, diversissime tra loro per aspetto ed ecologia. Queste pagine sono una raccolta di appunti e disegni più o meno ordinati, in precario equilibrio sulle leggi dell’evoluzione; un (breve) viaggio dalle spugne all’uomo. Percorrendolo, ci si accorge che ciò che vediamo è solo una piccola parte di un mondo invisibile, sconosciuto e meraviglioso.

«La trasformazione non è un aspetto della vita: la vita è trasformazione.»

Appunti e riflessioni su uno dei fenomeni più affascinanti del mondo naturale.

Con 27 illustrazioni in bianco e nero disegnate dall’autore.

RECENSIONE

Metamorfosi e altre meraviglie 

La domanda con cui Marco Di Domenico – biologo e insegnante, classe 1967 – è solito aprire le presentazioni dialogando col pubblico è: “quanti tipi di metamorfosi conoscete?”. Interrogati per alzata di mano gli spettatori rispondono quasi sempre in maggioranza “farfalla e rana”. Il catalogo è assai più vasto, come ha modo di precisare il ricercatore una volta terminato il sondaggio e, a ben vedere, coinvolge ogni forma vivente. La metamorfosi non è un’eccezione che riguardi solo alcune particolari specie. Tutte le creature infatti compiono una qualche metamorfosi durante il loro ciclo vitale. La vita stessa, quale evoluzione e adattamento al contesto ambientale, è una continua, ininterrotta sequenza di trasformazioni.

Fin dai tempi di Ovidio il cambiamento dell’aspetto esteriore d’un individuo ha colpito l’immaginazione. La metamorfosi affascina l’occhio umano forse perché rappresenta in modo emblematico il perturbante, nella formulazione classica psicanalitica data da Freud – Das Unheimliche – una forma nota da lungo tempo e familiare nasconde in sé l’impensato, la spaventosa capacità di rivelarsi in breve tempo per qualcosa d’altro. Ed è proprio questo ciò che pone in risalto il processo metamorfosi: il divenire “altro” di ciò che reputavamo “familiare”.

Il taccuino in questione non è un esile volumetto di rapsodici appunti, quanto piuttosto una sorta d’enciclopedia tascabile, un corposo catalogo delle metamorfosi più complesse e inattese che strutturano l’esistenza d’invertebrati, pesci, rettili, insetti. Di Domenico si rivolge al lettore con uno stile leggero ed esatto, un linguaggio tecnico ma chiaro in quanto chiosato senza pedanteria. Chi si avvicina alle storie di ciascuna specie metamorfica viene trascinato in altre storie collegate, in un meccanismo araldico vertiginoso. Il mondo naturale strabilia proprio grazie alla lunga serie di exempla, parabole istoriate nelle tavole in bianco e nero, opera dello stesso Di Domenico, che intervallano i capitoli del libro. Si potrebbe ben dire che del biologo il fine è la meraviglia, parafrasando il noto endecasillabo del settimo sonetto che nel Seicento il Cavalier Marino indirizzò al rivale Gaspare Murtola.

Eppure le più eccellenti metamorfosi illustrano proprio animali all’apparenza goffi, quasi ingaglioffiti per sfangarla e salvarsi in situazioni ostili e perigliose. Poco c’è del neoclassico e della simmetria equilibrata nei cambiamenti insospettabili che coinvolgono anche i pesci edibili più noti, dalla sogliola all’anguilla. Siamo abituati a identificarli al mercato, sul banco o in cucina, attraverso una forma precisa, stabile, quasi immutabile nel tempo. Rassicuranti, nei bei colori e nelle forme floride. Invece cambiano aspetto in modo radicale all’interno della loro vita, durante la crescita, lo sviluppo e le lunghe migrazioni. L’asimmetria e la mutazione prevalgono sul canone della forma adulta. Tanto che si può addirittura arrivare a pensare, dopo aver letto il libro, che solo nella morte, nel compimento ultimo della vita, una specie abbia una forma stabile e finita, che possa essere catalogata una volta per tutte. 

Cambi di sesso, passaggi da mondi terrestri a universi marini, stravolgimento delle abitudini alimentari: tutto tramuta fluidamente, a seconda dei casi, sotto gli occhi di chi osserva. La stessa specie può, nello stesso ecosistema, occupare simultaneamente, a seconda del livello di sviluppo, nicchie ecologiche molto distanti, tanto da creare imbarazzo al biologo che cerchi di attribuir loro un ruolo stabile, un censimento univoco della biodiversità. 

Le storie evolutive dei caratteri morfologici e dei comportamenti sono intrecciate in sessanta brevi capitoli, brevi “pillole” raggruppate in sei Parti (1 – Invertebrati marini a vita libera; 2 – Cordati; 3 – Pesci; 4 – Invertebrati terrestri a vita libera; 5 – Parassiti; 6 – Gli anfibi: metamorfosi e neotenia). La scrittura Di Domenico mette in atto una didattica che non insegna in cattedra o in laboratorio ma accompagna ad analizzare la biologia degli animali, talvolta con spunti etologici ed ecologisti. Come il saggista francese Gérard Genette (1930-1918) ebbe a rilevare nella sua opera Soglie i “dintorni del testo” sono rivelatori e costitutivi dell’opera.

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Il “taccuino”, fin dal titolo rematico, esplicita il genere al quale appartiene: si tratta d’appunti, riflessioni e abbozzi di disegni, osservazioni in presa diretta, legate all’esperienza vissuta e tangibile. Ventisette tavole in bianco e nero disegnate dall’autore illustrano infatti alcuni dei processi metamorfici più spettacolari. Come ogni taccuino d’appunti, anche questo pone domande aperte, sperimenta, testa e verifica con metodo scientifico i dati raccolti sul campo. Ciascuna nota naturalistica si basa sul dato empirico, specificando la data occasione, le specifiche circostanze in cui l’acuto occhio del biologo abbia avuto modo di osservare la mutazione.

L’opera solleva più dubbi e domande di quante risposte non riesca a dare al curioso lettore e questa è la sua ricchezza didattica. Nelle pagine si mostra come la il metodo scientifico, per via empirica, s’impegni a testare e dimostrare il funzionamento dei processi, salvo evidenziare poi che le eccezioni sono più delle costanti, che non c’è un’unica regola o canone stabilito una volta per tutte bensì una serie complessa e multidirezionale di variabili. La regola, in sostanza, è l’eccezione, ed ogni animale andrebbe studiato individualmente oltre che in relazione al mutevole contesto in cui vive. Assai interessanti in tal senso sono le parti relative a semiosi chimica, alle informazioni e i segnali che gli animali si scambiano non solo tra di loro, ma anche tra specie e regni, rinnovando la domanda sul “come fanno a saperlo fare”, come imparino a codificare informazioni e cognizione di sé nello spazio e nel tempo, domanda che assillò il padre dell’entomologia – e per alcuni, dell’etologia – Jean-Henri Fabre (1823-1915). 

Oltre le recinzioni della tassonomia la vita scorre e scavalca limiti tanto che il flusso della zoé appare indistinto e senza proprietà stabili. Se nei vari stadi evolutivi la stessa specie è al contempo molte specie differenti, che occupano ruoli e posizioni diverse nell’ecosistema, cos’è quindi una specie – nel calcolo della biodiversità – se ha così tanta differenza tra adulto e stadi larvali? Il libro affronta tale complessità evitando astrazioni o riduzioni schematiche: ciascun caso ha la sua storia. In tal senso può essere utile leggerlo anche in una angolazione antispecista, poiché decostruisce il concetto di specie e gli schematismi applicati al suo sviluppo, ponendo in rilievo le diversità, le singole eccezioni in relazione alla molteplicità del contesto. 

In tal senso l’opera aiuta a superare eventuali residui fissisti attraverso l’evidenza della metamorfosi e nel flusso vitale del progresso evolutivo. La vita appare un flusso che muta con tempi sfalsati su infiniti piani percettivi: ciò emerge dalle pagine non per assunti o affermazioni apodittiche, come avviene in un altro libro coevo sul tema, Metamorfosi di Emanuele Coccia (Einaudi, 2022), dove invece l’autore, filosofo, risulta intento con fin troppo zelo a spiegare ciò che è e ciò che non è, a ridurre attraverso sillogismi e triadi la molteplicità del vivente a un’unità neoplatonica. Quello che Di Domenico enumera è certo un catalogo di specie, ma dietro il metodo linneano binomiale il metamorfismo evidenzia come ogni classificazione, inquadramento o gerarchia non sia altro che un’approssimazione momentanea, un fermo immagine artificioso in un sistema in costante movimento. 

C’è quindi infine anche un valore politico – evoluzionista e materialista – nel metodo scientifico che indaga tale varietà di forme, usi e costumi, in quanto smentisce che vi sia un presunto comportamento naturale, dato una volta per tutte, che caratterizza ciascuna specie. Nella mimesi della metamorfosi Di Domenico sfida il labirinto della complessità guidando il lettore in ogni frastagliato pertugio alla scoperta di processi meravigliosi, in un gioco di scatole cinesi, rimandi a citazioni e combinazioni genetiche, in una rete dove tutto si tiene e niente si riduce. Fino ad arrivare all’uomo, scimmia neotenica, che non ha completato la metamorfosi. Cucciolo adulto e quindi, come la maggior parte delle creature durante lo sviluppo, malleabile, duttile, curioso e in cerca di soluzioni evolutive migliorabili.

 

 

RECENSIONE N. 1 "PADRI" DI GIORGIA TRIBUIANI - FAZI

Giorgia Tribuiani

Padri

Fazi Editore

Collana: Le strade
Numero collana: 499
Pagine: 196 - Euro € 16

 Il libro

È un pomeriggio di primavera quando, con lo stesso corpo e la stessa età del giorno della propria morte, Diego Valli risorge. Si risveglia sul pianerottolo di quello che era stato il suo appartamento, tira fuori le chiavi, prova a infilarle nella serratura ma si trova faccia a faccia con il figlio Oscar, lasciato bambino e invecchiato ormai di oltre quarant’anni. Da qui, ha inizio una vicenda di riconciliazioni e distacchi, una storia intensa e sincera sul rapporto tra padri e figli e sulla necessità del perdono.
Una volta riconosciuto il padre, Oscar affronta il comprensibile straniamento aggrappandosi alle incombenze della quotidianità, mentre Clara, sua moglie, non crede al miracolo e si oppone all’idea di ospitare in casa uno sconosciuto. A complicare le cose, si aggiunge l’arrivo di Gaia, la figlia della coppia, che torna nella città natale per trascorrere le vacanze. Di nascosto dalla madre, che è spesso via per lavoro, Gaia finalmente ha l’occasione di conoscere suo nonno: un uomo profondo, amante della musica, più simile a lei di quanto sia mai stato suo padre. Oscar, al contrario, scoprirà aspetti di Diego che non pensava gli appartenessero.
Dopo il perturbante e vertiginoso Blu, Giorgia Tribuiani torna con un romanzo dalla prosa tesa e accattivante che si appunta su una storia a tre voci di rabbia e dolore, parole non dette e seconde occasioni. Una riflessione sulla famiglia dalla trama originale in bilico tra realtà e impossibile per un’autrice che, come poche, sa scavare nell’animo umano per far emergere il rimosso e stimolare la comprensione con uno stile personale notevole e a tratti sorprendente.

«Padri testimonia come in minime storie possono rivelarsi spazi immensi. Un libro d’amore in senso largo, come accettazione e accoglienza dell’altro, quindi comprensione dell’umano al di là del proprio perimetro individuale. Certo c’è anche di più: la voce del perdono, la generosità di offrire sempre altre occasioni di fronte alla mancanza, all’assenza, ai sempre possibili errori che accompagnano i giorni che ci sono dati. Alla fine, verrebbe solo da dire, da parte di chi scrive come di chi legge: non è niente, è la vita soltanto».
Remo Rapino

 

RECENSIONE

 

«Padri testimonia come in minime storie possono rivelarsi spazi immensi. Un libro d’amore in senso largo, come accettazione e accoglienza dell’altro, quindi comprensione dell’umano al di là del proprio perimetro individuale. Certo c’è anche di più: la voce del perdono, la generosità di offrire sempre altre occasioni di fronte alla mancanza, all’assenza, ai sempre possibili errori che accompagnano i giorni che ci sono dati. Alla fine, verrebbe solo da dire, da parte di chi scrive come di chi legge: non è niente, è la vita soltanto».
Remo Rapino

È un pomeriggio di primavera quando, con lo stesso corpo e la stessa età del giorno della propria morte, Diego Valli risorge. Si risveglia sul pianerottolo di quello che era stato il suo appartamento, tira fuori le chiavi, prova a infilarle nella serratura ma si trova faccia a faccia con il figlio Oscar, lasciato bambino e invecchiato ormai di oltre quarant’anni. Da qui, ha inizio una vicenda di riconciliazioni e distacchi, una storia intensa e sincera sul rapporto tra padri e figli e sulla necessità del perdono.
Una volta riconosciuto il padre, Oscar affronta il comprensibile straniamento aggrappandosi alle incombenze della quotidianità, mentre Clara, sua moglie, non crede al miracolo e si oppone all’idea di ospitare in casa uno sconosciuto. A complicare le cose, si aggiunge l’arrivo di Gaia, la figlia della coppia, che torna nella città natale per trascorrere le vacanze. Di nascosto dalla madre, che è spesso via per lavoro, Gaia finalmente ha l’occasione di conoscere suo nonno: un uomo profondo, amante della musica, più simile a lei di quanto sia mai stato suo padre. Oscar, al contrario, scoprirà aspetti di Diego che non pensava gli appartenessero.
Dopo il perturbante e vertiginoso Blu, Giorgia Tribuiani torna con un romanzo dalla prosa tesa e accattivante che si appunta su una storia a tre voci di rabbia e dolore, parole non dette e seconde occasioni. Una riflessione sulla famiglia dalla trama originale in bilico tra realtà e impossibile per un’autrice che, come poche, sa scavare nell’animo umano per far emergere il rimosso e stimolare la comprensione con uno stile personale notevole e a tratti sorprendente.

«Padri testimonia come in minime storie possono rivelarsi spazi immensi. Un libro d’amore in senso largo, come accettazione e accoglienza dell’altro, quindi comprensione dell’umano al di là del proprio perimetro individuale. Certo c’è anche di più: la voce del perdono, la generosità di offrire sempre altre occasioni di fronte alla mancanza, all’assenza, ai sempre possibili errori che accompagnano i giorni che ci sono dati. Alla fine, verrebbe solo da dire, da parte di chi scrive come di chi legge: non è niente, è la vita soltanto».
Remo Rapino

Di solito capisco di dover raccontare una storia quando un’immagine diventa un’ossessione: se una scena, o l’ingresso di un personaggio, si presenta una sera ai miei occhi e il giorno dopo è ancora lì, e così quello dopo ancora e per tutta la settimana, e magari anche il mese successivo, allora significa che dietro quella scena o dietro quel personaggio si nasconde una storia, e che vale la pena di ascoltare.

So che accade lo stesso a molti scrittori: alcuni, come Antonio Tabucchi, lo hanno raccontato anche nelle introduzioni o nelle note finali dei loro romanzi.

«Quella sera di settembre – scrive Tabucchi a proposito di Pereira – compresi vagamente che un’anima che vagava nello spazio dell’etere aveva bisogno di me per raccontarsi, per descrivere un tormento, una scelta, una vita. In quel privilegiato spazio che precede il momento di prendere sonno e che per me è lo spazio più idoneo per ricevere le visite dei miei personaggi, gli dissi che tornasse ancora, che si confidasse con me, che mi raccontasse la sua storia. Lui tornò e io gli trovai subito un nome».

Cominciai a scrivere Padri nove anni fa, quando conoscevo poco più dell’immagine iniziale: un uomo risorge sul pianerottolo di casa nello stesso corpo con cui è morto quarant’anni prima; infila la chiave nella serratura, ma la chiave non gira.

La scena mi era venuta in mente leggendo un testo in cui Tiziano Terzani si poneva (e poneva al lettore) alcune domande sulla resurrezione dei corpi, e ce n’era una in particolare che suonava più o meno così: «Se il corpo risorgesse, avrebbe l’età in cui è stato lasciato al momento della morte?».

La domanda mi aveva suscitato una serie di immaginazioni – come quella di un aldilà composto da padri e madri fisicamente più giovani dei figli, se venuti a mancare a un’età inferiore –, culminante appunto nella scena del pianerottolo.

Nei giorni che seguirono, questa scena si fece via via più vivida dentro di me: come Tabucchi diedi un nome, Diego Valli, al mio personaggio, e guardandolo meglio scoprii che era morto in inverno e risorto in primavera (gli misi quindi indosso una giacca di montone della quale liberarsi in fretta, accaldato) e che si trattava di un postino (gli sistemai in spalla una tracolla con cui trasportare lettere e pacchi).

Buttai quindi giù questa prima scena per fissarla, e mi accorsi subito che dava origine a tanti piccoli tunnel nei quali infilarsi per afferrare altrettanti temi: volevo raccontare il miracolo, il bisogno che ne abbiamo? o piuttosto il tempo che vorremmo tornasse due volte, riportandoci insieme le persone e le cose che abbiamo perduto? oppure, ancora, questa storia voleva parlarmi della solitudine di un uomo che non vive più nel proprio tempo?

Per nove anni – e quattro riscritture da cima a fondo – cercai di carpire cosa volesse comunicarmi quell’immagine (la scrittura, per me, è da sempre un modo di “guardare”, o di capire, dando una forma alle cose, ciò che non riesco a capire altrimenti), quale storia volessi raccontare davvero tuffando Diego nella complicata vita famigliare di suo figlio Oscar, fatta di un matrimonio quasi in pezzi e di un rapporto padre-figlia fondato sulla mancanza di ascolto, e un primo punto di svolta arrivò dopo una lunga chiacchierata con Giulio Mozzi.

Mentre passeggiavamo per le vie di Padova, e io mi sorprendevo alle dieci del mattino a vedere le persone fare colazione con lo Spritz, lui mi suggerì, una volta rientrata a Bologna, di fare due cose: rileggere I fratelli Karamazov e rivedere Mary Poppins.

La seconda parte del consiglio, lo ammetto, mi strappò un sorriso, eppure, se rileggere i Karamazov mi permise di concentrarmi sul senso del sacro dei personaggi, sull’accettazione, sulla colpa (che è sempre stato uno dei miei temi principali), fu proprio Mary Poppins a offrirmi gli strumenti per comprendere davvero la mia storia.

Al centro dei romanzi di Pamela Lyndon Travers, infatti, così come al centro del film, non c’era l’elemento (o meglio il personaggio) fantastico, non c’era Mary Poppins, ma la famiglia Banks. Lei attirava certo l’attenzione con i propri prodigi, con la capacità di entrare nei quadri, ma quella storia non era la sua storia, almeno quanto la storia di Diego, arrivato in un momento di crisi della famiglia Valli, non era la storia di Diego.

Il fantastico, come accade dai tempi di Kafka e del racconto La metamorfosi, non sempre rappresenta il fulcro della storia, ma più spesso di quest’ultima si fa motore, catalizzatore: il focus della vicenda di Gregor Samsa non è la trasformazione in insetto (che del resto non suscita lo stupore che altrimenti meriterebbe), ma ciò che, da quel momento in poi, accade alle relazioni che legano i componenti della sua famiglia. Lo stesso finale del racconto riguarda non Gregor ma la sua famiglia.

Da Travers mi spostai allora su Kafka nella speranza di trovare l’ultima chiave, quella che forse – a differenza delle chiavi di Diego – avrebbe girato, e di fatto la trovai nei mesi del lockdown, rileggendo la Lettera al padre.

Si nascondeva nella frase:

«Poi c’era un secondo mondo, lontanissimo dal mio, nel quale vivevi tu.»

La caratteristica principale del rapporto padre-figlia presente nel mio romanzo, come dicevo, era la mancanza di ascolto, e la mancanza di ascolto era in fondo anche il motivo che aveva quasi ridotto in pezzi il matrimonio di Oscar. La presenza di un corpo estraneo, del fantastico, di un uomo tornato dall’aldilà, era l’invito ultimo fatto a quella famiglia di provare a parlarsi. Di più: era l’invito a credersi, ad affidarsi agli altri; una chiamata a venire incontro alle idealizzazioni di Oscar, ai dubbi di sua moglie Clara, al bisogno disperato di condivisione di sua figlia Gaia.

Sarebbero riusciti, i membri di questa complicata famiglia, a rispondere a questa chiamata?

Inoltre questo “tu” così colloquiale contenuto nella frase di Kafka, quest’affermazione sofferente, questa metafora dei pianeti mi ricordò Solaris, uno dei miei romanzi preferiti, e quel dolente desiderio di comunicare che è destinato a essere costantemente e disperatamente spezzato dalle diverse esperienze che abbiamo, e che sempre ci faranno sentire incompresi da chi non le ha condivise.

Se in Blu e in Guasti avevo raccontato di una incomunicabilità in qualche modo “colpevole” (causata, per esempio, dal non detto), capii che stavolta volevo raccontare un’incomunicabilità fisiologica, quella di mondi diversi, e di distanze che possiamo colmare – forse – solo nel momento in cui smettiamo di voler analizzare e processare e capire tutto, per accettare e perdonare e amare.

Giorgia Tribuiani


RECENSIONE N.2 "PADRI" DI GIORGIA TRIBUIANI - FAZI EDITORE

 

Giorgia Tribuiani

Padri

Collana:
Numero collana: 499
Pagine: 196 - Prezzo cartaceo: € 16
Data pubblicazione: 24-02-2022 
 
 
 
 
Il libro 
 

È un pomeriggio di primavera quando, con lo stesso corpo e la stessa età del giorno della propria morte, Diego Valli risorge. Si risveglia sul pianerottolo di quello che era stato il suo appartamento, tira fuori le chiavi, prova a infilarle nella serratura ma si trova faccia a faccia con il figlio Oscar, lasciato bambino e invecchiato ormai di oltre quarant’anni. Da qui, ha inizio una vicenda di riconciliazioni e distacchi, una storia intensa e sincera sul rapporto tra padri e figli e sulla necessità del perdono.
Una volta riconosciuto il padre, Oscar affronta il comprensibile straniamento aggrappandosi alle incombenze della quotidianità, mentre Clara, sua moglie, non crede al miracolo e si oppone all’idea di ospitare in casa uno sconosciuto. A complicare le cose, si aggiunge l’arrivo di Gaia, la figlia della coppia, che torna nella città natale per trascorrere le vacanze. Di nascosto dalla madre, che è spesso via per lavoro, Gaia finalmente ha l’occasione di conoscere suo nonno: un uomo profondo, amante della musica, più simile a lei di quanto sia mai stato suo padre. Oscar, al contrario, scoprirà aspetti di Diego che non pensava gli appartenessero.
Dopo il perturbante e vertiginoso Blu, Giorgia Tribuiani torna con un romanzo dalla prosa tesa e accattivante che si appunta su una storia a tre voci di rabbia e dolore, parole non dette e seconde occasioni. Una riflessione sulla famiglia dalla trama originale in bilico tra realtà e impossibile per un’autrice che, come poche, sa scavare nell’animo umano per far emergere il rimosso e stimolare la comprensione con uno stile personale notevole e a tratti sorprendente.

«Padri testimonia come in minime storie possono rivelarsi spazi immensi. Un libro d’amore in senso largo, come accettazione e accoglienza dell’altro, quindi comprensione dell’umano al di là del proprio perimetro individuale. Certo c’è anche di più: la voce del perdono, la generosità di offrire sempre altre occasioni di fronte alla mancanza, all’assenza, ai sempre possibili errori che accompagnano i giorni che ci sono dati. Alla fine, verrebbe solo da dire, da parte di chi scrive come di chi legge: non è niente, è la vita soltanto».
Remo Rapino

 

RECENSIONE

Dopo aver narrato di arte e ricerca di sé nelle precedenti opere Guasti e Blu, Giorgia Tribuiani torna a scavare l’animo umano con un tema più tradizionale, quello dei rapporti familiari, nell’ultimo romanzo Padri, edito da Fazi, trovando anche questa volta una chiave narrativa originale. Dialoghiamo con l’autrice.

Padri mi ha ricordato lo schema dei romanzi di Saramago, che poi andando più indietro è lo stesso della Metamorfosi di Kafka: accade un fatto iniziale inspiegabile e poi il resto è tutto perfettamente logico e conseguente. In questo caso il fatto onirico scatenante è la resurrezione di Diego Valli, padre di Oscar, nonno di Gaia. Dalla Lettera al padre di Kafka è anche tratta la frase in esergo, è quindi lui il “padre” letterario di questo romanzo? E ce ne sono altri?

Kafka è sicuramente il principale modello di riferimento: in primis, come giustamente osservi, proprio per la struttura della narrazione. Come fa notare Tvetan Todorov nel suo illuminante La letteratura fantastica, prima di Kafka la caratteristica principale dei racconti del fantastico era il movimento progressivo dal reale all’irreale: a un certo punto, in un mondo perfettamente conosciuto, si apriva una crepa, uno squarcio, e questo strappo andava via via allargandosi lasciando prima intravedere e poi penetrare avvenimenti non spiegabili secondo le leggi di quel mondo; il personaggio – e quindi il lettore – si trovava in una condizione di “esitazione” dove il nocciolo di tutto, mentre il fantastico esplodeva nella realtà passando dalle poche tracce a una presenza ben evidente e sostanziale, diventava capire se l’evento surreale fosse conseguenza di una distorsione dei sensi (dovuta al sonno, alla pazzia, a sostanze psicotrope) o di leggi fino a quel momento ignorate. Con Kafka tutto questo cambia. Il fantastico, per esempio nel racconto La metamorfosi, irrompe nel reale con la sua piena potenza, spalancando la porta ed entrando tutto in una volta, e poi resta lì, di fronte a personaggi che più che esitare devono lottare per “adattarsi” nella quotidianità alle nuove condizioni. In questo senso Kafka è assolutamente il padre letterario di questo romanzo: come ne La metamorfosi, la crepa nel reale si apre una volta sola anche in Padri, all’inizio, e tutta la storia non è altro che una reazione e un adattamento del reale a questo squarcio; una catena di rapporti di causa-effetto, il crollo delle tessere verticali di un domino dopo la schicchera iniziale. Oltre a Kafka confermo poi anche le influenze da parte di Saramago, oltre che di Dostoevskij (in particolare con I fratelli Karamazov), di Lem e, cambiando totalmente tipologia di romanzi, di Pamela Lyndon Travers: anche nel ciclo di romanzi su Mary Poppins, infatti, l’arrivo del personaggio magico che dà il via alle vicende (e, in questo caso, anche il titolo ai libri) non fa del personaggio stesso la protagonista: protagonista è la famiglia Banks, che cambia, che si evolve nelle sue relazioni e nelle sue epifanie, che disegna – per dirla in termini “tecnici” – degli archi narrativi.

L’elemento soprannaturale del ritorno del padre defunto diventa pretesto per indagare il tema classico dei rapporti familiari. I membri della famiglia Valli non vivono grandi tragedie, eppure sono infelici. Applicheresti ai tuoi personaggi la famosa frase di Tolstoj «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»? E cosa in particolare rende infelice questa famiglia?

La frase di Tolstoj mi sembra appropriata. Aggiungo che, a mio avviso, anche ogni membro di questo tipo di famiglie ha un modo tutto suo di essere infelice: nel caso di Oscar, Clara e Gaia, che non fanno eccezione, il primo lo fa rifugiandosi nelle certezze, nella razionalità, nelle cose che conosce (è un chimico, e come canta De André: «da chimico un giorno avevo il potere di sposar gli elementi e farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l’amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore»); la seconda alzando un muro, arroccandosi nella propria posizione con le proprie certezze; la terza, viceversa, provando ad agire fino a restare quasi senza forze. Ciò che dunque rende infelice questa famiglia, per rispondere alla tua domanda, è principalmente l’incapacità di ascolto. Una famiglia dovrebbe essere composta non solo dai suoi membri ma anche dalle loro relazioni (sono in fondo proprio le relazioni a definirci come padri, madri, figli e figlie, sorelle, fratelli): in quest’ottica la famiglia Valli sembra piuttosto un trio di monadi, di personaggi che disperatamente vorrebbero essere ascoltati, ma che non trovano a loro volta la forza di ascoltare: lo capirà ed esprimerà senza censure il nonno risorto quando, parlando con Oscar a proposito di Gaia, affermerà che «non ci sono vincitori, tra voi due; tu nemmeno la ascolti, la sua ultima parola, e lei non ascolta le tue […] Quello che voglio dire è che ci fate poco, con le ultime parole, se non ascoltate quelle prima»). Del resto la famiglia Valli non è così brava neppure a comunicare, a parlare: il precario equilibrio in cui si trova al momento dell’arrivo del nonno è destinato a infrangersi perché costruito sui “non detti”, su conversazioni sempre superficiali a fronte di movimenti emotivi profondissimi: mostrare questo iceberg è stata una delle mie principali preoccupazioni dal punto di vista stilistico; l’uso abbondante del monologo interiore mi è servito per mostrare quanto ognuno dei tre protagonisti avesse da dire e quanto poco di questo riuscisse poi ad affiorare nel dialogo.

Diego risorge con le stesse fattezze, gli stessi abiti e stessa età del giorno della sua morte. È così che immagini la resurrezione dei corpi? Nemmeno la Chiesa è mai stata chiara al riguardo. Il ritorno di Diego ha per te anche una connotazione religiosa o è solo un espediente letterario per dire altro?

Uno dei principali stimoli all’invenzione di questo romanzo (o almeno della sua prima scena) fu proprio una serie di domande a riguardo che Tiziano Terzani poneva alla Chiesa in uno dei suoi libri: accettata l’idea della resurrezione dei corpi, in quale stadio del nostro corpo è possibile immaginare un nostro ritorno? un uomo mutilato di un braccio è destinato a risorgere con o senza il braccio? l’anziano è destinato a risorgere nella sua “ultima” età o in una precedente, che pure gli è appartenuta? Ricordo che quest’ultima domanda mi colpì, generando subito in me una piccola ossessione e – di conseguenza – la prima scena del romanzo, o meglio il fotogramma in cui l’ultracinquantenne Oscar apre la porta di casa e si trova di fronte il padre più giovane, perché risorto nel corpo lasciato al momento della morte (un corpo di ventottenne nelle prime stesure; un corpo di quarantenne nella versione definitiva nel romanzo). In questo senso la mia immaginazione non è una risposta alla domanda, ma la concretizzazione narrativa di una possibilità.

Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, per me il ritorno di Diego non ha una connotazione religiosa, o almeno non in senso stretto. Al di là delle domande che mi hanno portata a immaginare l’incipit, al di là dell’utilità, come giustamente rilevi, dell’espediente letterario, ha trovato strada nel romanzo una riflessione sul “senso del sacro”, sulla “spiritualità”. In questo senso mi è stato di ispirazione Teorema di Pier Paolo Pasolini: Clara, per esempio, così come la famiglia borghese del romanzo pasoliniano, è talmente arroccata nelle proprie paure e nelle proprie credenze da non saper accogliere l’evento miracoloso in tutta la sua portata; non è in grado di compiere quell’atto di fede (che presupporrebbe prima di tutto un atto di fiducia nei confronti del marito) necessario a colmare la distanza tra la risposta razionale all’arrivo di Diego e l’accettazione che Oscar possa sentirsi legato a quest’ultimo su un piano spirituale.

Tema ricorrente dei tuoi tre romanzi, Guasti, Blu e Padri, è il desiderio di essere visti, guardati, apprezzati. Le protagoniste, Giada, Ginevra e Gaia, con cui condividi l’iniziale del nome, cercano nello sguardo altrui la propria identità. Cosa significa per te, come persona, essere guardata, e come scrittrice coincide con l’essere letta?

Per quanto mi riguarda penso di essere molto simile alla mia Blu: cerco costantemente di nascondere agli occhi altrui le mie paure, le mie fragilità, i miei pensieri “sbagliati” (sono ossessionata dall’immagine che gli altri possono avere di me, da quello che possono pensare – a niente è valso cercare di interiorizzare la frase di David Foster Wallace che tanto amo: «La vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi»); al tempo stesso, però, desidero che gli altri mi comprendano al cento per cento, che mi apprezzino e amino “a prescindere da” (o a volte “anche per”) quelle stesse paure, quelle stesse fragilità, quegli stessi pensieri sbagliati.

Tante volte, scrivendo Blu, avrei voluto dire alla mia protagonista: ma come pensi che possano apprezzarti a tutto tondo se non dai loro la possibilità di conoscerti a tutto tondo? In questo senso Blu mi ha fatto da specchio, così come mi rivedo in lei nel mio approccio all’arte: quello della scrittura è l’unico spazio dove qualsiasi paura scompare, dove riesco a non autocensurarmi, dove sono molto d’accordo con la frase di Giulio Mozzi che recita «la parte di te che scrive non ha bisogno dell’approvazione delle altre parti di te». Tutti i miei romanzi hanno una sincerità violenta che non mi concedo nella vita di tutti i giorni se non con pochissime persone care. La sola idea di parlare in quel modo con tutti gli sconosciuti che mi leggono mi farebbe girare la testa. In questo senso, considerato che nella scrittura riesco a parlare davvero e a non nascondermi, essere letta mi dà una possibilità in più per essere guardata: certo, poi non dipende tutto dall’oggetto ma anche dal soggetto (con, in questo caso, la sua sensibilità più o meno vicina alla mia), e dalla relazione che si instaura tra i due.

In Padri viene ribaltato il luogo comune che vuole il padre razionale e la madre istintiva ed empatica. Infatti, mentre Oscar è subito disposto a credere di avere di fronte il proprio padre redivivo, Clara, sua moglie, porta avanti fino alla fine del romanzo una posizione diffidente e scettica, quando non apertamente ostile. Nella società attuale in effetti i ruoli paterno e materno sono in effetti in trasformazione rispetto alla visione tradizionale. È voluto questo ribaltamento di genere? E cosa rappresentano i due diversi punti di vista dei genitori di Gaia?

Il ribaltamento in questo caso è stato la conseguenza di una scelta: quella di proporre una corrispondenza tra i due padri; di dare a Oscar, che rappresenta la generazione di mezzo e l’anello di congiunzione tra Diego e Gaia, uno “specchio”. Questa scelta di base sulla discendenza paterna ha determinato a cascata un maggiore atto di fede/fiducia da parte di Oscar, una spinta maggiore a “credere”. Probabilmente questo tipo di approccio che prevede l’inquadramento della relazione prima di quello del personaggio (un approccio che si abbina bene a un vecchio mantra dello scrittore Giulio Mozzi: «non esistono i personaggi, esistono le loro relazioni», ma anche al nuovo modo di intendere il teatro per cui l’attore è prima di tutto un re-attore), deriva molto dalla mia visione “liquida” dei caratteri. Oscar è di fatto un personaggio razionale, cosa che la figlia gli rimprovera da anni, ma di fronte alle nuove circostanze è costretto a cambiare, a cedere a quello che “sente”, a rinnegare almeno in parte le proprie certezze. Questo è del resto uno dei motivi per cui amo molto le storie soprannaturali e horror: i personaggi fanno esperienze limite e, per non soccombere, sono costretti a mutare, ad abdicare in favore di altri sé. Fanno e pensano cose che mai avrebbero pensato, sono disposti a tutto, esplorano le proprie potenzialità come mai avrebbero fatto. In questo senso i due punti di vista sono due possibili reazioni “chimiche”: dati due personaggi diversi con due bagagli esperienziali diversi e due reti di relazioni diverse, lo stesso evento ha effetti – va da sé – diversi. Clara è colei che resta ferma, non fa neppure un passo, e perde il contatto con il resto della famiglia; Oscar, aiutato dal proprio bisogno di recuperare il padre, evolve.

A volte le azioni più affettuose non vivono di slanci, ma di mite e ostinata costrizione, Come quei ti voglio bene che la bocca deve sforzarsi a dire. Quel rendere orgogliosi. Successi inaspettati di qualcuno che hai vicino e che hai paura non ti veda come prima. Domata gelosia.” Sicuramente tema portante del romanzo è la difficoltà di comunicazione all’interno dei rapporti familiari, la rabbia, i silenzi, il non detto, l’incapacità di esprimere i propri sentimenti. L’assecondare desideri e aspettative altrui per guadagnarsi l’amore, che – piaccia o meno – non è mai davvero incondizionato. Quanto è giusto secondo te fare questo sacrificio, e quando invece diventa rinuncia a sé stessi?

Questa è una domanda da un milione di dollari. Non credo ci sia una risposta valida per tutti, e ho il sospetto che questa risposta finisca per variare anche per una stessa persona: in base alla fase della vita che sta attraversando, in base al bisogno «d’attenzione e d’amore» di quello specifico momento eccetera. In senso stretto ogni forzatura, ogni costrizione è una – seppure infinitesimale, in certi casi – rinuncia di volontà o di spontaneità, a prescindere dalla bontà del risultato. Alla domanda da un milione di dollari posso dunque dare una risposta che apparirà banale: per me, per come la vedo io, conviene cercare di capire cosa rischieremmo di perdere non forzandoci e cosa (di noi, in primis) facendolo, e mettere i due esiti sulla bilancia.  

Un altro tema portante, strettamente legato al primo, è la seconda occasione, quella che tutti sogniamo: poter tornare indietro a riparare gli errori, nei sentimenti, nel lavoro, nelle decisioni in generale. Ma al termine del libro mi è rimasta una domanda: anche avendo la possibilità di viverle, le seconde occasioni sono risolutive o si finisce per commettere di nuovo gli stessi errori?

L’occasione è uno strumento: riuscire a coglierla davvero, e quindi a non ripetere gli stessi errori, è dunque qualcosa che a mio avviso non dipende dall’occasione, ma dall’avere capito – appunto – di avere commesso degli errori. Dall’avere imparato a usarlo, questo strumento, o dall’essere pronti a tentarne un utilizzo diverso. Perché si possa reagire in modo differente di fronte a uno stimolo simile è necessario (ma comunque non per questo sufficiente) che le consapevolezze siano mutate, maturate; che ci sia stata la volontà di un esito diverso, o quantomeno il suo germoglio: dipende da noi; viceversa la seconda occasione potremmo non vederla neppure.

Il padre di Gaia ha una visione competitiva e meritocratica della vita, tanto che la spinge ad essere sempre la migliore, ad esempio negli studi, subordinando ai risultati anche l’affetto, o almeno la sua espressione. È un atteggiamento piuttosto diffuso da parte dei genitori, che di solito lo giustificano con lo scopo di spingere i figli a dare il meglio, per il loro bene. Non sarà invece piuttosto una proiezione sui figli del proprio ego?

Spesso i genitori tendono a vedere i figli come proprie estensioni, come propaggini: si sentono responsabili dei loro errori e parte dei loro successi. Non dico che questo non possa essere vissuto in modo sano. Il genitore è in fondo il primo educatore. Le cose cominciano a diventare problematiche, tuttavia, quando l’invito a eccellere, o ad appassionarsi a una certa disciplina (penso alle storie di tutti i figli che, a lungo, hanno suonato uno strumento o praticato uno sport, magari anche agonistico, solo per “compiacere” il genitore, o a quelli che hanno rinunciato ai propri desideri per ereditare il lavoro del padre o della madre), non hanno più a che fare con il figlio, ma con il genitore. Con le sue passioni o – in alcuni casi – con le sue frustrazioni. “Non sono riuscito a diventare nessuno, ma adesso mio figlio…”.

Penso che, come in tutte le cose, il segreto sia nella misura e nella consapevolezza, nella capacità di distinguere le spinte altruistiche da quelle egoistiche (non dico sia facile: a volte, e questo non riguarda solo il rapporto tra i genitori e i figli, non sappiamo accettare per esempio che un talento venga sprecato a fronte di un mancato interesse nel coltivarlo, o che una persona che sappiamo caparbia si abbatta – specie se la amiamo) e nella cura con cui si usano le parole: nel mio romanzo Gaia sente di dover “meritare” l’amore di suo padre («è come se il suo affetto – confida al nonno – dovesse passare per l’orgoglio. Che quando disapprova con lo sguardo ti pare che tutta la Terra disapprovi; che tutto l’affetto della Terra potevi meritarlo e non l’hai fatto»). Di fronte a una situazione di questo tipo un figlio può sentirsi sotto ricatto morale, mentre al contrario dovrebbe sempre potersi sentire sicuro del bene del proprio padre; dovrebbe poterlo sapere svincolato dalle proprie prestazioni.

Ad un certo punto mi sono chiesta, ma il padre, non lo dovevamo uccidere? Perché invece continua a risorgere? Gaia, universitaria ormai prossima alla laurea, si preoccupa più di tutto dei rapporti tra suo padre e sua madre, tra suo padre e suo nonno, invece di costruire rapporti propri, con gli amici, con un nuovo amore. Giovane ma già vicina all’indipendenza, perché continua a guardare al passato, invece di lanciarsi nel futuro? Si dice che in Italia troviamo particolare difficoltà a staccarci dalla famiglia d’origine, a livello sia economico e sociale che psicologico, credi che sia vero?

Non saprei: da un lato al giorno d’oggi i figli tendono a restare con le famiglie d’origine fino a un’età molto più avanzata rispetto al passato, o a dipendere economicamente da queste; dall’altro è vero anche che oggi ci sono figli che non possono contare come un tempo sulle case di proprietà (che spesso in passato erano limitrofe a quelle dei genitori, o magari erano appartamenti al piano di sopra o di sotto), figli che lasciano il “nido famigliare” a diciotto anni, figli che si spostano all’estero per avere più opportunità lavorative. C’è una complessità tale che rende – almeno a me, che sono una profana in materia – molto difficile l’interpretazione. Differente è secondo me il discorso psicologico. Oggi i figli possono “parlare” con i propri genitori, osservare le loro problematiche, vederli divorziare, innamorarsi, soffrire, piangere, sfogarsi: la distanza relazionale di un tempo è quasi azzerata (ricordo che mia nonna disse una volta che ai suoi tempi dava “del voi” alla madre, e certamente non c’era spazio per le confidenze reciproche) e credo che per certi versi sia naturale preoccuparsi di più per genitori che ci appaiono più umani, della cui felicità a volte finiamo per sentirci addirittura responsabili (è poi uno dei temi di Blu, il mio secondo romanzo, dove la protagonista si “investe” di un ruolo che la obbliga a rendere sempre felice la madre, pena un forte senso di colpa e di inadeguatezza).

Mi ha colpito il personaggio di Diego, il nonno, che si ritrova in un mondo diverso da quello che conosceva, più complesso, più tecnologico, in cui l’amata moglie non c’è più e gli amici sono morti o invecchiati al punto da non riconoscerlo. A una lettura superficiale Diego può apparire come puro strumento per la crisi e la crescita degli altri personaggi, ma in realtà la sua dimensione personale è la più tragica.  “È che il tempo della morte è un tempo crudele, non conserva il nostro posto: è come quando giochi a beach volley, no?, che se esci, se vai a prendere un gelato, non è che poi rientri quando ti pare; non è che prendi e fai lo schiacciatore mentre in campo c’è altra gente” scrivi verso la fine. Anche lui ha una seconda occasione, ma saprà coglierla? Cosa rappresenta Diego in sé stesso, al di là degli effetti del suo strano ritorno?

Diego, per me, è proprio colui che la seconda occasione non può coglierla, o almeno, sicuramente, non fino in fondo. Se è vero quanto ho scritto prima, e cioè che l’occasione è solo uno strumento e che siamo noi – è il nostro modo di essere e di approcciarla con tutta la consapevolezza che abbiamo degli errori commessi e delle cose che vorremmo cambiare – a fare la differenza, se questo è vero, il povero Diego, che si trova proiettato in un battito di ciglia da un tempo all’altro, da una vita all’altra, da una rete di relazioni all’altra, manca di tutto un percorso, non ha materialmente la possibilità di accogliere il miracolo che gli viene donato, e che di fatto, comprensibilmente, lui non riconosce come tale. «Non ci sono possibilità, per me; non più. Non sono parte di niente. Questo non è il mio tempo. Questo non è il mio miracolo.», affermerà verso la fine, e avrà ragione: quello che lui sta vivendo è il miracolo di Oscar, di un uomo che ha avuto tutto il tempo di cambiare e di interiorizzare il passato prima di trovarsi di nuovo faccia a faccia con il proprio padre e con le proprie ombre.

Ho trovato tra le righe un’attrazione appena accennata tra Diego, il nonno rimasto quarantenne, e la nipote Gaia. Lui rivede in lei la moglie quando era giovane, lei trova in lui una figura più sensibile e affine rispetto al suo vero padre. Hai mai pensato a una linea narrativa in cui tra i due nascesse una storia d’amore, che si potrebbe definire ultra-edipica? O questa traccia l’ho vista solo io, perché mi piace pescare nel torbido?

Sei una lettrice incredibilmente attenta! In una precedente stesura il nonno risorgeva un po’ più giovane (ventotto anni, come scrivevo rispondendo a una tua domanda precedente) e Gaia era al contrario un po’ più grande (venticinque) e tra i due si creava una particolare attrazione. Questo improvviso riconoscersi di Gaia nel nonno – uno spirito poetico e romantico e amante dell’arte come lei – danzava sul confine tra affetto famigliare e sensazione di aver trovato “l’uomo giusto”: il significato della storia si spostava un po’; suonava come: «tutti noi vogliamo essere amati dalla nostra famiglia e alla fine creiamo da zero una famiglia che ci ami». Aveva un suo senso, ma al tempo stesso si discostava troppo da quello che volevo raccontare: il tentativo da parte di Gaia di “sostituire” il padre, seguito dalla consapevolezza di avere messo a confronto un genitore con tutti i suoi difetti (Oscar) con un uomo idealizzato (Diego). Insomma: mi interessava rimanere sul tema della paternità e della sua percezione, senza rischiare che il lettore concentrasse la sua attenzione su altro. Così ho invecchiato Diego e ringiovanito Gaia, in modo che la distanza di età tra i due potesse generare più un rapporto padre-figlia che uno amoroso. Si vede che un po’ della tensione che avevo infuso nelle scene tra i due deve essere rimasta palpabile, per un occhio attento.

C’è chi dice che si scrive per tutta la vita lo stesso libro, e c’è chi effettivamente lo fa, invece tu ci hai già dato tre romanzi molto diversi, sia per quanto riguarda i temi che lo stile, a questo punto siamo curiosi del prossimo, che cosa stai preparando?

Per tematiche e costruzione, il prossimo romanzo sarà sicuramente il più lontano da tutti gli altri: ho appena terminato la prima stesura di una storia corale dove, in un villaggio immaginario le cui comunicazioni sono in mano a merli grandi come bambini, tutti gli abitanti vengono chiamati a partecipare a uno strano macabro gioco, con tanto di regolamento, penalità e premio per i vincitori.

A narrare la storia, questa sorta di favola nera, è una voce che cerca di ricostruire i fatti raccogliendo lettere, pagine di diario, appunti e altri documenti che sono presenti a loro volta nel testo, come inserti.

Mi sono divertita moltissimo.

 

RECENSIONE "LE DISTRAZIONI" DI FEDERICA DE PAOLIS - HARPER COLLINS ITALIA

Le distrazioni

 

LE DISTRAZIONI

di Federica De Paolis

 

 

 

 

 

 

 

 

Il libro

Viola, come ogni giorno, ha portato Elia ai giardinetti del quartiere. Da quando ha avuto l’incidente, poco meno di due anni prima, tutto le è faticoso, quasi insopportabile. Così come sono insopportabili i continui ritardi di Paolo. Per questo, quando lo vede arrivare da lontano, Viola non aspetta neanche che entri nel parco e se ne va. Ma proprio in quel momento lui è raggiunto da una telefonata, deve tornare in ufficio, un impianto di cui è responsabile ha preso fuoco. Elia, che ha solo diciotto mesi, resta solo. Abbandonato al suo destino. In una porzione di Roma grigia e desolata come una landa. Prima che la coppia si accorga che è scomparso passano secondi, minuti. Poi, la consapevolezza.

Dov’è Elia? Si è solo allontanato? Qualcuno lo ha preso? Chi può essere stato? C’entrano i Rom del campo vicino? O riguarda il lavoro di Paolo, che da avvocato ha a che fare con persone influenti e corrotte? Oppure potrebbe averlo trovato Dora, l’inseparabile amica di Viola, che Paolo non sopporta? Dopo la vittoria del Premio DeA Planeta, Federica De Paolis torna mettendo in luce tutto il suo talento.

Come in un romanzo di Donna Tartt, Le distrazioni compone una sinfonia di sentimenti e generi: indaga nella vita di una coppia, scandaglia le relazioni famigliari, rovescia la realtà, mentre il tempo inesorabile scorre. Federica De Paolis si conferma unica nel raccontare il lato oscuro della normalità, i silenzi, le omissioni, le piccole menzogne e le verità impronunciabili. E, dando corpo a una delle paure più atroci di un genitore, regala ai lettori un romanzo esplosivo e intensissimo, fino allo straordinario, inatteso, finale.

Federica De Paolis è nata a Roma nel 1971. È dialoghista cinematografica e autrice televisiva. Ha insegnato allo IED e insegna alla scuola di scrittura creativa Molly Bloom. Tra i suoi libri precedenti, tradotti in numerose lingue e adattati per il cinema, il romanzo vincitore del Premio DeA Planeta 2020: Le Imperfette. Scrive per La Stampa.

Federica De Paolis è nata a Roma nel 1971. È dialoghista cinematografica e autrice televisiva. Ha insegnato allo IED e insegna alla scuola di scrittura creativa Molly Bloom. Tra i suoi libri precedenti, tradotti in numerose lingue e adattati per il cinema, il romanzo vincitore del Premio DeA Planeta 2020: Le Imperfette. Scrive per La Stampa.

 

 RECENSIONE

 

HarperCollins Italia annuncia che i diritti di trasposizione audiovisiva del romanzo di Federica De Paolis "Le distrazioni" sono stati opzionati da Italian International Film - Gruppo Lucisano.

Il romanzo di Federica De Paolis è stato pubblicato da HarperCollins nel maggio 2021, ottenendo una caldissima accoglienza da parte della critica, che ne ha paragonato la prosa a quella di Donna Tartt ed evocato Ian McEwan, mentre il pubblico ha seguito - e segue tuttora - il tour italiano dell'autrice con calorosissima fedeltà.


    "Le distrazioni" indaga il lato oscuro della normalità, i silenzi, le omissioni, le piccole menzogne e le verità impronunciabili nella vita di una coppia, nella storia di un amore che ha smarrito se stesso, e scandaglia le relazioni famigliari dando corpo a una delle paure più atroci di un genitore: in una Roma desolata e al contempo grandiosa, un bambino piccolo scompare ai giardinetti, mamma e papà si sono distratti… Una trama serrata che tiene con il fiato sospeso fino alla fine, dove niente è come sembra, e che apre la narrazione a una sinfonia di sentimenti e generi, investiga la realtà e al contempo la rovescia. All'insegna di una massima semplice e implacabile: le distrazioni hanno il potere di cambiare le nostre vite.
    Federica De Paolis è nata a Roma nel 1971. È dialoghista cinematografica e autrice televisiva. Ha insegnato allo IED e insegna alla scuola di scrittura creativa Molly Bloom. Tra i suoi libri precedenti, tradotti in numerose lingue e adattati per il cinema, il romanzo vincitore del Premio DeA Planeta 2020: Le Imperfette.