Lincoln park, Chicago, 1985. Yale e Charlie sono una coppia consolidata. Li si incontra per la prima volta appena arrivati a casa di Richard, un amico comune. Si riuniscono assieme ad altri amici in una «festa» per ricordare Nico così come lui avrebbe voluto, anche se il suo funerale si sta svolgendo in una chiesa a trenta chilometri di distanza da quel luogo. Così ha voluto la famiglia, escludendo dal ricordo del figlio perduto gli ultimi anni di vita, gli amici, il suo compagno. Nico, «brillante e meraviglioso», è stato consumato dall’AIDS, malattia che in quegli anni è ancora una sentenza di morte e che sta falcidiando la comunità gay statunitense nell’indifferenza generale. Con gli amici c’è anche Fiona, la sorella più giovane di Nico, che prende le distanze dalla sua stessa famiglia, e che avrà un ruolo chiave nella vita di Yale.

Comincia così il lungo romanzo di Rebecca Makkai “I grandi sognatori”, in Italia edito da Einaudi nella traduzione di Cristiana Mennella, una storia che prende il suo via nel 1985 e che poi si sviluppa parallelamente anche trent’anni dopo, nel 2015, seguendo le vicissitudini di una Fiona invecchiata che continua a lottare con il suo trauma di sopravvissuta nel ricordo del fratello e di chi, tra quegli amici, non c’è più. Quello dell’“AIDS crisis”, come viene chiamata nel mondo anglosassone, è un trauma generazionale che ha coinvolto i sopravvissuti alla malattia, pochi e provati, che ha incentivato un nuovo attivismo LGBTQ per la conquista di diritti che si credevano universali, e che ha decimato una generazione di uomini e donne vitali e luminosi, citando l’autrice, martoriati da una malattia sconosciuta che non lasciava scampo.

Il contesto storico

Nel 1981 il CDC statunitense (Center for Disease Control) pubblica un articolo scientifico che annuncia le tracce di una nuova forma di infezione polmonare, molto aggressiva, riscontrata in cinque uomini gay a Los Angeles. Nello stesso anno vengono rilevati altri fenomeni sospetti: l’aumento dei casi di Sarcoma di Kaposi, un cancro della pelle altrettanto aggressivo, e casi di immunodeficienza gravi, che portano a una prima definizione pubblica e discriminatoria della malattia: «gay cancer». Il messaggio implicito è che è un problema esclusivo delle comunità gay e per questo non urgente. Nel 1982 questi e altri sintomi vengono associati ufficialmente a una sindrome che il CDC ribattezza AIDS, acronimo che sta per Acquired immunodeficiency syndrome.

Nel 1982 le morti statunitensi per AIDS sono 853 e l’amministrazione Reagan non ne fa parola; manterrà questo atteggiamento fino al 1985, quando i morti saranno 5363. Proprio a Reagan c’è un riferimento fugace e significativo nel primo capitolo del romanzo, in un momento in cui il ricordo di Nico passa anche per la musica che gli amici scelgono in questo surreale “party” d’addio:

Qualcuno armeggiò con il giradischi e […] partí la musica: l’intro acustica di America di Simon e Garfunkel, la versione del concerto a Central Park. Il pezzo preferito di Nico, che lui vedeva come un inno ribelle, non come una banale canzone che parlava di un viaggio in auto. La sera in cui Reagan era stato rieletto, Nico l’aveva messa in continuazione al jukebox del Little Jim’s finché al bar non l’avevano cantata in coro ubriachi, dicendo che si sentivano persi e contavano le auto e cercavano l’America. Proprio come la stavano cantando tutti adesso.

Dell’indifferenza criminale dell’amministrazione Reagan si occupa un cortometraggio del 2015 prodotto da Scott Calonic, dal titolo “When AIDS Was Funny”. Per fare un paragone, le morti di AIDS negli Stati Uniti nel 2015 sono state più di 650.000. In questi quarant’anni di epidemia la malattia continua a uccidere indiscriminatamente uomini, donne e bambini di ogni età.

“Storm the NIH” ACT UP at NIH; “Storm the NIH” Demonstration “Die-In”. Fonte: Flickr

Il ruolo del romanzo nel racconto di una comunità

Makkai sceglie di rappresentare un preciso contesto storico nella sua Chicago, sovvertendo quella regola non scritta che ha sempre focalizzato l’attenzione dell’impatto dell’AIDS su New York e San Francisco. Tre anni di ricerche, interviste e scrittura per un romanzo che narra le vicende di personaggi fittizi plasmati sulle vite che Makkai stessa ha scoperto negli anni di lavoro.

Yale, uno dei protagonisti, ha 31 anni ed è un esperto d’arte; Charlie, il suo compagno, è titolare di una agenzia di viaggi, ma è soprattutto un attivista nonché editore di una delle riviste gay della città, «Out Loud Chicago». Quello di Nico non è il primo funerale per AIDS a cui assistono, ma è il primo di un amico e molti altri dei presenti sono sieropositivi, cosa che all’epoca lasciava poche speranze. Le azioni del governo statunitense sono insufficienti, gli ospedali non accolgono i malati per timore e stigma, molti, pur con i primi sintomi evidenti, non fanno il test per paura della condanna che sarebbe potuta arrivare. Erano trattati come appestati e la speranza, in quel periodo e per molti anni a venire, sarà riposta nei trial medici.

– Il guaio, – disse Teddy, – è che questa malattia sembra un giudizio. […] Se l’hai presa andando a letto con un esercito, è un giudizio sulla tua promiscuità. Se l’hai presa andando a letto una volta sola con una sola persona, è quasi peggio, è un giudizio su tutti noi, come se il problema fosse l’atto in sé anziché quante volte lo fai. E se l’hai presa perché credevi che non l’avresti presa, è un giudizio sulla tua superbia. E se l’hai presa perché sapevi che te la saresti presa e te ne sei fregato, è un giudizio sul fatto che odi te stesso.

Pur nella paura della malattia, la comunità immaginaria descritta da Makkai è vivace e affascinante. C’è la bellezza di Boystown a Chicago in quegli anni, «una via di mezzo tra il ghetto e la mecca gay», e lo spessore degli uomini (e poche donne) che racconta con dedizione e comprensione. Rebecca Makkai mette al centro del suo lavoro di scrittura storie di amicizie, amore e morte nella scena omosessuale e ne scrive da donna bianca ed eterosessuale. Con onestà intellettuale, affida alle sue note finali il dubbio che investe ogni lettrice e lettore del romanzo: si può parlare di appropriazione del trauma? Può Makkai raccontare una eredità che non le appartiene? Ed è qui che interviene lo spessore dell’autrice: il suo è un romanzo scritto per rendere giustizia alla memoria storica di una città che ha vissuto l’impatto dell’AIDS come tutte le altre metropoli statunitensi, e auspica che queste storie siano d’ispirazione affinché i veri protagonisti intervengano, confermino, critichino, purché non di dimentichi chi è caduto e l’impatto che ancora la malattia ha nel mondo. Lo scopo ultimo di Makkai è quello di consegnare alla letteratura questo trauma collettivo e l’attivismo che ne è conseguito.

La storia nelle pagine del romanzo

La storia fa capolino in molti punti del racconto, per esempio nella seconda metà, quando Yale è all’apice della sua consapevolezza, Makkai cita una manifestazione che è rimasta negli annali e che è tuttora visibile su YouTube.