Il capolavoro di Hermann Melville quando venne pubblicato nel 1851 fu un clamoro insuccesso. Eppure nessuno ha saputo fondere l'epopea avventuroa con i grandi temi esistenziali, il rapporto con la divinità, con il male, il confronto con il testo biblico. leggere <<Moby Dick>> significa immergersi in uno dei più grandi libri della letteratura mondiale.
All'apparenza è una semplice (per quanto grandiosa) epopea marina: il racconto dello scontro tra il capitano Achab e la balena bianca Moby Dick. Achab ha giurato di vendicarsi del grosso cetaceo che in un viaggio precedente gli ha tronacato una gamba. La vicenda è narrata dal giovane Ismaele, anch'egli imbarcato sulla baleniera <<Pequod>>, capitanata da Achab.
Il libro più celebe di Herman Melville nasce, come primo spunto, da due eventi realmente accaduti: l'affondamento nel 1820 della baleniera Essex di Nantucket, dopo l'urto con un enorme cetaceo e l'uccisione del capodoglio albino Mocha Dick nelle acque al largo dell'isola cilena di Mocha. Eppure leggere Moby Dick (con o senza trattino, la questione filologica è piuttosto discussa) significa immergersi in uno dei più grandi libri della letteratura mondiale, affrontare un corpo a corpo con un mastodonte che apre a tutte le interpretazioni, mostrando di tutte l'assoluta inadeguatezza. La carica simbolica che il romanzo, zeppo di citazioni di storie bibliche e di echi shakesperiani, porta con sè, autorizza a vedere di volta in volta, Dio o il Male, alternativamente in Achab o nella balena, mentre la vastità del mare è il campo aperto dell'irrazionalità del mondo ma anche la ricerca della sfida assoluta con l'infinito.
Come ha scritto Pietro Citati, Moby Dick <<non è un romanzo ma un'enciclopedia>>, enciclopedia di animali (si propone di distinguere e classificare tutte le balene e i capodogli), di uomini e dèi. E' un Leviatano per moderni che nessuno ha potuto imitare che inchioda il lettore fin dalla prima riga: <<Chiamatemi Ismaele>> per chi è legato all'imprecisa, poetica traduzione italiana di Cesare Pavese (Adelphi); <<Chiamatemi Ismaele>> come preferisce la nuova, filologica versione firmata Ottavio Fatica (Einaudi).
Il manoscritto ha una storia lunga e tormentata e arriva alla prima pubblicazione, nel 1851, in due versioni diverse. La pubblicazione parto febbrile di una creatività espansa, fu un clamoroso insuccesso: quando melville morì nel 1891 (era nato nel 1819), senza essersi mai ripreso dalla delusione, il libro aveva venduto poco più di tremila copie e ottenuto il plauso di pochi amici, tra cui Nathaniel Hawthorne.
Eppure nessuno ha saputo fondere l'epopea avventurosa con i grandi temi esistenziali, il rapporto con la divinità, con il male, il confronto con il testo biblico. Vagamente paragonabile all'impresa di Melville c'è forse soltanto Horcynus Orca del siciliano Stefano D'Arrigo, pubblicato nel 1975 dopo vent'anni di lavoro. Un impervio canto epico di oltre milleduecento pagine, dissertazione grandiosa intorno al tema della morte e della vita dove si racconta l'odissea del giovane 'Ndrja Cambria, marinaio della Regia Marina durante la Seconda guerra mondiale, destinato a morire in mare. Un animale, l'Orca, la più grande delle fere, rapace mostro degli abissi marini, annunciato dal fetore della propria carne guasta, causata da un'orribile ferita, portatore di morte e di forza vitale, demone guida, è l'intermediario tra i due regni. Affascinante groviglio di miti arcaici e realtà storiche, per il grande critico George Steiner il romanzo di D'Arrigo non può essere che <<la risposta europea a Moby Dick>>.
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