La bambina che aveva sposato il mago
Se La moglie del mago immaga – per usare una parola arcaica che rende bene l’idea di fascinazione – è perché restituisce in pieno la magia dello sguardo dell’infanzia allo stato puro, uno sguardo che distorce e amplifica gli spazi a dismisura e che dona anima e vita a quel che è inanimato. Il bambino, o la bambina, è il mago, o la maga, del genere umano. I bambini sono i (ri)creatori del mondo, i primi generatori di straordinarie magie, di un mondo di illusioni incantate da cui è doloroso uscire.
Nel caso della piccola Rita, la protagonista di questo romanzo a fumetti, la sua magia personale si fonde e dialoga con quella di un illusionista adulto e in quanto tale manipolatore. Rita è la figlia della domestica dei genitori di Edmond, il mago. E la madre è l’amante di quest’ultimo, il quale prepara già il terreno invadendo le terre vergini dell’infanzia di Rita.
Dal verde intenso e avvolgente – quasi una giungla – di una primavera del 1956 a Saratoga, nello stato di New York, con cui si apre la narrazione, fino all’inverno del 1973 nella medesima località, quando la vicenda si chiude dopo molte peregrinazioni ai quattro angoli del globo, quello narrato è un labirinto, mentale prima ancora che fisico, una prigione della psiche che tiene intrappolati degli esseri disadattati, che siano carnefici o vittime. Come in tutti gli altri romanzi a fumetti della coppia.
Grande recita della (auto)manipolazione, dell’(auto)illusione, La moglie del mago è una graphic novel che affonda le sue radici nel Little Nemo in Slumberland di Winsor McCay. Paradigma dell’onirismo di matrice surrealista del fumetto del novecento, il piccolo Nemo viaggia nell’inquietante mondo dei sogni di notte in notte, fatto salvo svegliarsi con un capitombolo a ogni fine tavola per riprendere il viaggio-sogno alla tavola seguente. Va avanti così ogni settimana, dal 1905 al 1927, sui giganteschi supplementi domenicali a colori dedicati ai fumetti dei grandi quotidiani statunitensi (solo più tardi arriverà anche la striscia quotidiana in bianco e nero), grazie ai quali le grandi testate quintuplicavano le vendite nei fine settimana. Grande mago, grande illusionista McCay. Ha modellato l’immaginario americano di quell’epoca come forse nessun altro.
Fu un mago dalle innumerevoli facce: pioniere dell’animazione con il cortometraggio Gertie il dinosauro; sapiente e raffinato vignettista politico; autore di innumerevoli serie a fumetti ; inventore del grandangolo prima del cinema, vera rivoluzione concettuale, anzi psichica, che precede quella tecnica; elaboratore di visioni surrealiste prima del tempo – il letto che cammina – così come di prospettive sottosopra alla M.C. Escher quando Escher era un bambino dell’età di Nemo o poco più; star dei teatri come l’illusionista Houdini: il pubblico faceva la coda per assistere alla magia del disegno “mentre si sta facendo”, come ha scritto qualcuno.
McCay era un artista al limite dell’autodidatta che da bambino passava ore nei dime-museum, i musei popolari pensati per la classe operaia per i quali avrebbe poi lavorato, e soprattutto nei circhi, insieme ai clown e ai cosiddetti freaks (i fenomeni da baraccone protagonisti dell’omonimo di film di Ted Browning). Fece accompagnare il piccolo Nemo nelle sue deambulazioni sonnambule da un indigeno nero e da un clown in un rapporto assolutamente paritario. Erano loro ad avere una personalità, a differenza dell’anemico e anonimo Piccolo Nessuno con cui tutti potevano identificarsi.
Little Tulip, pagine 7 e 8 (Edizioni Oblomov)
Little Nemo è stato certamente il fumetto che più ha influenzato se non plasmato legioni di artisti, da Moebius allo stesso Boucq. La moglie del mago, che più sottilmente è anche un’opera sull’arte e la rappresentazione e dove la messa in scena si confonde appunto con la manipolazione, è un Little Nemo alla rovescia. Non solo perché è declinato al femminile, ma perché c’è la medesima dimensione circense e teatrale dominata dalla distorsione dello sguardo infantile sul mondo, ma che vira al negativo. La dimensione è sempre magica e inquietante, ma l’inquietudine da elemento sottile assurge a elemento costitutivo. E le varie facce del mago Edmond hanno ben poco di magico.
Rita, manipolata da bambina e poi diventata moglie nonché star degli spettacoli di magia di un marito sempre in tournée, è del tutto innocente riguardo alla manipolazione e all’abbandono di sua madre da parte di Edmond? E seguendo il successivo scivolamento nel noir e nel thriller, chi è il serial killer? Chi il lupo mannaro? Tutto è illusione, tranne forse il dolore.
Il mondo magico è un mondo di luci e ombre e quindi l’ambivalenza ne è l’elemento fondante, che caratterizza non solo il rapporto tra sogno (psicosi) e realtà, ma la stessa psicologia dei personaggi. Ma Rita, uno dei più bei personaggi femminili del fumetto moderno, alla fine recupererà tutta la sua verità e dignità di essere umano. Un percorso per il quale Boucq, come nei tanti racconti brevi umoristici che realizzò all’epoca, fa uso di un grottesco surreale molto marcato. Anche qui il rimando è teatrale e si pensa in particolare al cosiddetto teatro del grand guignol, sanguinolento, dimostrativo fino al ridicolo, qui usato per rappresentare un mondo in decadenza se non in decomposizione.
Qui c’è una una galleria di caratteri e personaggi incredibili, da grande romanzo
Elementi che ritroviamo anche in Little Tulip, primo capitolo di uno straordinario dittico che potrebbe forse diventare una trilogia, ma declinati in un registro più realistico anche sul piano grafico. L’universo descritto è il Bronx di New York, come anche in New York cannibals che lo segue, un luogo dove sono ambientati molti romanzi di Charyn. Ma il racconto trova la sua unitarietà e il suo senso nei frequenti flashback nella Russia dei gulag staliniani.
È quasi un universo surreale alla Alejandro Jodorowsky quello descritto, dei suoi film (La montagna sacra, Santa Sangre), come dei suoi fumetti (la saga western di Bouncer disegnata da Boucq), connotati da un surrealismo crudo. Le spietate gang che si sono venute a creare nei campi, impregnate di riti e paranormale, rimandano quasi a un mondo alla Braveheart o alla Mad Max, di cui il Bronx è la versione “normalizzata”, forse umanizzata.
In attesa di riscoprire Bocca del diavolo (1990), storia di una spia in sonno dell’era stalinista nella New York della guerra fredda, qui c’è una una galleria di caratteri e personaggi incredibili, da grande romanzo, di cui pare impossibile scegliere il più interessante (forse la maga nera Mama Paradis a capo di una corte dei miracoli dei sotterranei primeggia su tutti).
Boucq offre un susseguirsi di inquadrature che sono altrettanti spaccati di ambienti, restituiti con un senso straordinario del colore pittorico dato spesso per piccoli tocchi che rafforzano il suo segno realistico. Ci sono tanti personaggi maschili dubbi, ma anche positivi, e tanti personaggi femminili positivi, ma anche negativi e tuttavia sempre interessanti. Il protagonista, finito da ragazzino in un gulag perché figlio di una finta spia americana in uno dei tanti processi farsa staliniani e poi tornato negli Stati Uniti, è un uomo di grande integrità e affettività malgrado le durezze.
Accanto a lui spiccano almeno due personaggi femminili: la poliziotta culturista asiatica Azami che l’uomo ha adottato dopo l’omicidio della madre, e Nadya, donna misteriosa e suo amore dell’adolescenza nel gulag, che sul piano visivo rimanda simbolicamente alla Rita della Moglie del mago. Ma sembrano tutte sorelle, variazioni di un unico prototipo, quello delle infanzie (o adolescenze) rubate al femminile e di cui sarà difficile non innamorarsi.
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