V13
Traduzione di Francesco Bergamasco
La collana dei casi, 147
2023, 2ª ediz., pp. 267 - € 20,00
Temi: Letteratura francese, Reportage
Il processo del secolo visto con gli occhi di Emmanuel Carrère
Fatti e riflessioni sul processo ai responsabili della strage al Bataclan e degli altri attentati di Parigi del 13 novembre 2015
Nel suo attesissimo V13, edito da Adelphi, Emmanuel Carrère ci racconta nel suo inconfondibile stile il processo (definito oltralpe il “processo del secolo”) ai responsabili degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, avvenuti quasi in simultanea in vari punti della capitale francese: Bataclan, Stade de France (dove si giocava l'amichevole di calcio tra Francia e Germania, alla presenza dell'allora presidente François Hollande) e dehors di ristoranti e cafè nella zona est. Incaricato di occuparsene per il settimanale francese “Obs”, per dieci mesi (da settembre 2021 a luglio 2022) Carrère ha assistito, pass al collo e taccuino alla mano, seduto su una scomoda panca, a tutte le udienze celebrate nell'aula allestita appositamente nel Palais de la Cité, sulla Senna, luogo altamente simbolico (oltre a ospitare il Palazzo di Giustizia è l'edificio dove Maria Antonietta e altri prigionieri illustri furono imprigionati e processati nei giorni della rivoluzione).
Il libro si compone degli articoli da lui inviati ogni lunedì, con qualche utile integrazione.
20 imputati
Si comincia. Nella “bianca scatola” senza finestre che costituisce l'aula del processo, da una parte siedono i venti imputati, la maggior parte dei quali chiusi in un box di vetro: tra essi, Salah Abdeslam, l'unico sopravvissuto al commando jihadista (gli altri in qualità di complici, avendo svolto ruoli organizzativi, più o meno consapevolmente). Dall'altra le vittime della strage (“feriti, congiunti, persone offese”), assistite dai rispettivi avvocati: vittime e avvocati sono così numerosi che, seduti sui banchi a loro destinati, occupano più di metà della sala. E poi la Corte: il presidente (un magistrato di lungo corso) e quattro giudici a latere, tutte donne. Al momento dell'appello, il presidente fissa Salah Abdeslam, l'imputato principale: “Si alzi e dichiari le sue generalità”. Per tutta risposta il giovane recita la shahada, l'atto di fede dell'islam: “Non c'è altro dio all'infuori di Allah e Maometto è il suo Profeta”. “Bene” dice il presidente, “questo lo vedremo in seguito. Nome del padre e della madre?”. Risposta: “Il nome di mio padre e di mia madre qui non c'entrano nulla”. “Professione? Combattente dello Stato islamico”.
Centrotrenta persone uccise, trecentosessant'otto feriti
Il presidente consulta i suoi appunti e rialza gli occhi: “Io, qui, vedo: lavoratore interinale”. Si comincia, dunque, quasi inciampando in un momento di involontaria ironia. Eppure si stanno processando persone ritenute, seppur in diversa misura, responsabili dell'uccisione di centrotrenta persone e del ferimento di trecentosessant'otto. Una carneficina, il più grave attentato dell'era moderna sul suolo francese. Il processo è stato ribattezzato “V13” (e così il libro) per via del giorno in cui sono avvenuti i fatti. Il più alto numero di vittime si è registrato al Bataclan, una sala da concerti situata nell'XI arrondissement. Durante l'esibizione del gruppo rock californiano degli Eagles of Death Metal, alla presenza di oltre un migliaio di spettatori, un commando di tre terroristi armati di kalashnikov ha fatto irruzione nel locale aprendo il fuoco sulla folla. Dopo un paio d'ore di quella carneficina, i membri del commando si sono fatti esplodere o sono stati uccisi dalla polizia.
Salah Abdeslam, un francese naturalizzato belga di origine marocchina ritenuto responsabile della sparatoria nei pressi del Café Bonne Bière, avrebbe dovuto farsi saltare in aria davanti ai tavolini del locale, ma qualcosa non ha funzionato, per questo è sopravvissuto. Quando si sta per cominciare con l'audizione dei primi testimoni Salah Abdeslam chiede la parola: “Saranno ascoltati anche quelli che vengono bombardati in Iraq e Siria?”. Il presidente nicchia: “Lo vedremo a tempo debito”.
Per cinque settimane si susseguiranno le testimonianze delle vittime, dei primi soccorritori, tra orrore e disperazione. “Camminiamo in mezzo a corpi aggrovigliati” racconta un poliziotto. “Scivoliamo su pozze di sangue, calpestiamo pezzi di denti e di ossa, e ci sono i cellulari che vibrano, le famiglie che chiamano”. Si va avanti così, tra corpi dilaniati, crani esplosi e “fracassi facciali”. Quelle dei sopravvissuti, molti dei quali rimasti mutilati, sono vite distrutte, da ricostruire. Viene trasmesso un video di rivendicazione dello Stato Islamico che mostra i “dieci leoni del califfato”, ossia i futuri kamikaze di Parigi, in un campo di addestramento in Siria intenti a decapitare tra i sorrisi alcuni prigionieri. Un testimone ricorda di aver incrociato la Seat dei terroristi a un semaforo. Uno di loro avrebbe abbassato il finestrino e gridato: “Lo Stato islamico è venuto a sgozzarvi!”.
Confessa uno dei sopravvissuti, ex rugbista, la cui carriera è finita quel giorno: “Ho cercato di capire perché dei giovani decidano, così, di sparare su altri giovani. Non capisco, forse non c'è niente da capire”. Eppure, annota Carrère, questo processo avrebbe “la smisurata ambizione di mostrare, nel corso di nove mesi, da ogni angolatura, dal punto di vista di tutti gli attori, che cosa è successo quella notte”. Numerosi gli esempi di “aiuto reciproco, di solidarietà, di coraggio” durante quelle ore tremende. “Ho spinto mia moglie a terra, mi sono gettato sopra di lei, nel parterre si sono stesi tutti”. Di contro, la implacabile ferocia dei carnefici: “Dopo le prime raffiche ho visto un uomo atletico che sparava verso il pavimento” racconta un sopravvissuto. “Veniva avanti tranquillo, un paio di passi, uno sparo, un paio di passi, uno sparo. Non aveva il passamontagna. Quando mi sono reso conto che era a volto scoperto, ho capito che saremmo morti tutti”. Nel fuggi fuggi generale, tra persone che si spingono e si calpestano, c'è chi riesce a nascondersi, a mettersi in salvo salendo in galleria, mentre il parterre è ormai ricoperto da corpi aggrovigliati (è sempre questa la parola che ritorna), “impossibile distinguere i morti dai vivi”.
I parenti delle vittime
Quando la parola tocca a loro, si scopre che tra i parenti delle vittime non vi è intesa: chi è disponibile al perdono e chiede “semplicemente giustizia”, chi pieno di odio vuole vendetta. E gli imputati? Fin lì hanno ascoltato impassibili, ogni tanto ridendo e confabulando tra loro. Poi a turno prendono la parola, alcuni di loro per dipingersi come dei “bravi ragazzi”, vittime a loro volta del destino, dell'Occidente, delle sue bombe. In realtà, molti di loro hanno precedenti penali, spacciano, fanno abuso di alcol. Sette di loro provengono da Molenbeek, quartiere periferico di Bruxelles dove l'islam si è radicalizzato più che altrove: a un certo punto si sono lasciati affascinare dall'Isis e dal suo sogno di conquista del mondo. Già, perché “lo Stato islamico accoglie chiunque, adolescenti impacciati, idealisti, pagliacci, pazzi scatenati, tutti sono i benvenuti, a tutti viene promesso l'Eldorado: alloggio, donne, armi, ostaggi da torturare per chi lo gradisce, e molti lo gradiscono”.
La loro linea difensiva consiste nel sostenere che “gli attentati sono stati una risposta legittima al terrorismo di Stato messo in atto dalla Francia in Iraq e poi in Siria”. Insomma, “occhio per occhio dente per dente”. A un certo punto Salah Abdeslam si alza e dichiara: “Tutto quel che dite su noi jihadisti, è come se leggeste l'ultima pagina di un libro. Il libro dovreste leggerlo dall'inizio”. Può darsi, ma che dire delle pagine non ancora scritte? Del fatto che pianificavano (sono state trovate le prove) altri attentati ancora più sanguinosi, se possibile? Non dobbiamo considerarli vittime, spiega un “arabista” che li conosce bene. Al contrario, loro si considerano degli eroi, l'avanguardia di un grande e invincibile movimento che conquisterà il pianeta. Quando viene il suo turno Salah Abdeslam, si difende dichiarando di non aver ucciso o ferito nessuno e di aver gettato la cintura di esplosivo in un cassonetto, dopo averla disinnescata, perché non se la sentiva di colpire dei giovani come lui.
E se anche fosse?
Sapeva perfettamente quello che stava accadendo al Bataclan, e gli
andava bene. Nel corso del processo, Abdeslam ha perfino pianto, ha
chiesto scusa, tra frasi sibilline. Per lui, alla fine, sarà ergastolo
ostativo, senza sconto di pena. La Corte riterrà dimostrato a
sufficienza che la cintura non ha funzionato in quanto difettosa.
Ergastolo anche per Mohammed Abrini, che avrebbe dovuto far parte del
commando ma, a sentir lui, si sarebbe tirato indietro all'ultimo. Per
gli altri, condanne da trent'anni di carcere in giù. Alcuni rimessi
subito in libertà (pena già scontata). Uno soltanto assolto. A conti
fatti, le testimonianze delle vittime sono state il cuore e il pilastro
del processo, come era prevedibile. Quando hanno parlato, gli imputati
non hanno aggiunto molto a ciò che già si sapeva. Odio, fanatismo,
cameratismo, dabbenaggine, in alcuni casi sadismo.
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