A volte sei bello.
A volte la menzogna in te ha ragione.
Ce la farò senza di te. In fondo non ricordi più la promessa fatta.
Non so nemmeno
se è la storia che ha creato noi
o se noi abbiamo creato la storia.
Se siamo solo l'eco
di un cuore altrui.
Caterina Giuseppa Buttitta
Il libro
"Euforia" racconta l'ultimo anno di Sylvia Plath regalandoci
l'indimenticabile ritratto di una mente brillante impegnata in una
battaglia con il mondo, con le persone che ama e con se stessa. Quando
il romanzo si apre, Sylvia, incinta del secondo figlio, è entusiasta
all'idea della nuova avventura in cui lei e Ted Hughes si sono imbarcati
insieme: ristrutturare una vecchia canonica lontano dalla grande città,
crescere una famiglia in un regno tutto per loro. Prima dell'arrivo dei
bambini Ted era il suo compagno in ogni cosa: da intellettuali vivevano
intensamente la vita e ne prendevano ciò che volevano. Ma ora Ted
scompare sempre più spesso nel suo studio per scrivere mentre Sylvia si
ritrova abbandonata, un animale assediato dai suoi piccoli. Il suo
desiderio è scrivere, amare, vivere, lasciare un segno nel mondo. Ma
dove sarà la sua immortalità? Nei bambini che nutre con il suo corpo o
nelle parole che appunta sulla pagina nei pochi momenti rubati? Quando
Ted la abbandona definitivamente per andare dalla sua amante a Londra,
Sylvia si scopre al contempo intossicata dal suo stesso potere e
annientata dalla perdita. In questo stato di euforia, si sente sul punto
di raggiungere il massimo dei suoi poteri creativi come scrittrice. Ha
deciso di morire, ma l'arte a cui darà vita nelle sue ultime settimane
infiammerà il suo nome. "Euforia" è un'opera incandescente che presta
una voce collettiva a tutte le donne del mondo che si trovano a vivere
con un piede nella vita domestica e l'altro nella creazione artistica.
Elin Cullhed non si accontenta di descrivere la parabola di una tragedia
femminile, ma sa come afferrare un'anima perduta, come tenderle una
mano, perché nella letteratura non è mai troppo tardi.
RECENSIONE
L'ultimo anno della poetessa e scrittrice Sylvia Plath narrato con
uno stile che ci fa ripensare al suo talento e alla sua maestria: il
romanzo ripercorre i giorni del parto del secondo genito Nicholas,
l'abbandono del marito Ted Hughes colpevole di tradimento e, infine, gli
ultimi tristi giorni prima del suicidio.
Quando ero così felice – quando vivere era una tale beatitudine – allora mi
veniva paura, perché sapevo per esperienza che in quel momento sarebbe
arrivata la catastrofe. Cercai di respingere il terrore, ma lo sentivo
distintamente, come un lieve sfarfallio che mi risaliva in gola.
Affidare la voce di Sylvia Plath ad un’intima prima persona
che possa raccontare al lettore tutto ciò che sta vivendo come un
diario. I diari della poetessa americana sono stati di enorme aiuto per
cercare di comprendere i motivi che l’hanno portata al suicidio, hanno
permesso ad ammiratori e studiosi di entrare nella sua testa e scoprire l’animo di Sylvia Plath.
Impugnai la salda penna, che sparò le parole come proiettili diretti contro
la realtà! Bang! Bang! Bang! Bang! Nemmeno succhiai l’estremità della
penna perché non c’erano intervalli! Non c’era altro che un pensiero e
adesso stava per nascere! Stavo partorendo tutte le parole che,
accidenti a me, stavano bene insieme e creavano qualcosa di più grande e
vero di ciò che la realtà avrebbe mai saputo evocare! Stavo vincendo
sulla realtà!
Il libro si conclude nel novembre del 1963. Prima del debutto di La campana di vetro.
Prima della tragedia. Sylvia sta traslocando, sta tornando nella sua
Londra, sta andando a vivere al 23 di Fitzroy Road, nella casa di Yeats,
il suo poeta preferito. È con i suoi figli, è euforica.
Elin Cullhed ci lascia una speranza, una piccola speranza, un mondo in cui Sylvia ha davvero ripreso a vivere,
ha sostenuto i suoi figli, ha sconfitto l’ossessione per Ted. Un mondo
dove la montagna russa è finita e la poetessa può scendere a godersi la
pace.
Soffre per la gabbia senza uscita della maternità, che la costringe a
essere altro da ciò che per tutta la vita aveva immaginato per sé
stessa.
“Lui poteva rimanere nell’ombra ed essere uno scrittore, prima di tutto. Io dovevo appartenere ai bambini, non avevo scelta.
Lo sapevo che dovevo essere grata, ma non riuscivo a provare un bel
niente. Avrebbero potuto anche regalarmi un biglietto per l'Europa o
pagarmi una crociera intorno al mondo, che per me non avrebbe fatto un
briciolo di differenza: dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave
o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa
campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.
Impugnai la salda penna, che sparò le parole come proiettili diretti
contro la realtà! Bang! Bang! Bang! Bang! Nemmeno succhiai l’estremità
della penna perché non c’erano intervalli! Non c’era altro che un
pensiero e adesso stava per nascere! Stavo partorendo tutte le parole
che, accidenti a me, stavano bene insieme e creavano qualcosa di più
grande e vero di ciò che la realtà avrebbe mai saputo evocare! Stavo
vincendo sulla realtà!
Quando ero così felice – quando vivere era una tale beatitudine –
allora mi veniva paura, perché sapevo per esperienza che in quel momento
sarebbe arrivata la catastrofe. Cercai di respingere il terrore, ma lo
sentivo distintamente, come un lieve sfarfallio che mi risaliva in gola.
In una lettera avevo scritto alla mamma che d’un tratto mi piaceva
cucire e dedicarmi ai lavori manuali; ecco cosa mi aveva fatto la
gravidanza: mi aveva resa pigra e amabile. Volevo sfogliare riviste
femminili e non essere impegnata in attività intellettuali.
«Sapevo che tutti erano felici quando la mia scrittura taceva, perché
allora anche il lupo taceva (il più delle volte)». Ma gli occhi di
questo lupo «brillavano nel suo inconscio» e riemergono feroci a ogni
rifiuto editoriale e incomprensione coniugale. Solo Frieda e Nick si
salvano in questa furia distruttiva fatta di risentimento e
insoddisfazione.
Dovevo essere brava – dovevo essere istruita – dovevo avere una
laurea e allo stesso tempo dovevo essere quella donna libera che lei [la
madre], prigioniera della sua generazione, non avrebbe mai potuto
diventare del tutto. Dovevo essere famosa (il giusto), dovevo partire
per posti lontani e raggiungere la competenza professionale – la
scrittura – di cui lei non aveva mai potuto fregiarsi […].
Il mondo della cultura si era schierato con Elin Cullhed, esprimendo il
timore che «un patrimonio inestimabile» potesse andare in frantumi. Ma
non era servito.Negli anni della sua carriera, il rapporto di Sylvia Plathè stato
ripetutamente squassato da baruffe che ancor oggi fanno riflettere sulle
possibilità di innestare cultura di respiro internazionale in un humus
locale, creando una dimensione genuinamente glocale. Coi suoi scritti, Sylvia Plath, riuscì in quell’impresa, creando
una scrittura che parlavano allo stesso tempo all’Italia e al mondo, ma che
talvolta dispiaceva per via di una
libertà di pensiero difficilmente imbrigliabile.
Una intellettuale e artista di spessore sovranazionale venga considerata una scomoda interlocutrice, tuttavia avere la possibilità
di entrare nelle pieghe di quelle visioni divergenti offre un’utile
riflessione sull’ieri e sull’oggi.
Dalla lettura di quelle pagine, che spaziano dai ricordi della luce dell'infanzia. a quella della maternità, spicca
fra l’altro una concezione della cultura fortemente europea, radicata in
un umanesimo sentito come fondamentale comune denominatore del
continente. Ma, scriveva per Sylvia Plath, ciò che si osservava
prevalere era «il trionfo del particolare, alla ricerca spasmodica di un assetto conveniente...innalzando lo Spirito, della Poesia, del
Suono». L’auspicio della scrittrice era invece che l’arte potesse fare da
traino a «mercati, monete e frontiere», diventando « sogno realizzabile
per tutti e non solo grande utopia di pochi».
La verità è che Euforia è una raccolta difficilmente riducibile ad
unum. È una raccolta nella quale convivono molti registri, come del
resto in tutte le raccolte di Sylvia Plath. Però forse il
registro predominante è quello della beatitudine. Al fondo, quello che sentiamo scorrere è un senso
di struggimento, perché, per quanto il nostro sguardo e la nostra
memoria siano larghi nelle loro possibilità di accoglienza, il tempo e
la vita comunque ci sfuggono via dalle mani, e ci lasciano indietro.
Vivere è nascere giorno dopo giorno,: forse è
questo che, in Euforia, Sylvia Plath prova a fare, seppur nei limiti della
parola poetica. Forse è questo ciò che anche lei vuole dirci.
Citazioni del libro
“La mia realtà cambiava forma ogni minuto […], un momento ero in
pace un altro ero felice, un terzo ero disperata un quarto piangevo,
sudavo, avevo nostalgia, desideravo e speravo. Niente di tutto ciò
poteva davvero essere preso sul serio.” – Euforia
“Rimasi seduta al freddo sulla
pietra bagnata finché Nick non si svegliò e Frieda mi strattonò per
farmi tornare alla realtà, lei era come tutti gli altri, mi tiravano e
strattonavano e volevano allontanarmi a ogni costo dall’euforia,
allontanarmi dalla beatitudine del mio cuore, non mi era consentito
essere felice, non mi era consentito credere nella mia stessa vita.” – Euforia
“Quell’orribile vuoto patologico
quando Ted non era in casa. Avrei potuto sparare a un’anatra e lasciarla
sventrata in giardino come monito, oppure a un bambino, perchè no. Ted
doveva capire, Ted doveva capire davvero che cosa mi faceva quando mi
lasciava sola in quel modo. Il piacevole bagliore del fuoco che di
solito mi riempiva di serenità e di qualcosa di simile alla…
consolazione? era solo un bagliore di morte, quando lui era via. Il
bagliore della morte”