Faccio questo viaggio (e scrivo). Nel 1983 Daniele Del Giudice apriva una nuova strada per il romanzo italiano. Lo stadio di Wimbledon (Einaudi, Supercoralli). E' la storia di un incontro impossibile, quello tra chi in queste pagine dice io e un non-scrittore morto da anni, una figura evanescente e inafferrabile, decisiva per la società culturale del suo Paese pur senza aver mai scritto una riga.
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“Faccio questo viaggio per capire cosa avrebbe o potuto scrivere se ne fosse stato in grado.
E voglio scriverlo io.
Per lui.”
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EINAUDI
«Cosa ci annuncia questo insolito libro?» si chiedeva Italo Calvino nell'atto di pubblicarlo. Era il 1983, e il romanzo d'esordio di Daniele Del Giudice si presentava davvero come un annuncio. Come ogni vero inizio, piú che inseguire tracce, creò nuovi territori. Misterioso e inesauribile, Lo stadio di Wimbledon è il viaggio di un uomo davanti alla scelta di prendere la parola. Seguendo i passi di uno scrittore nevralgico che non scrisse mai nemmeno un libro, e temendo il contagio del suo silenzio, quell'uomo si interroga su come stare al mondo. Forse vorrebbe solo vedere, e sentire, senza fermare nulla in forma di parole, perché «qualunque frase è contro il panorama». Ma per lui non c'è altra conclusione: «Scrivere non è importante, però non si può fare altro».
Il libro
«Il navigante segue il faro calcolando continuamente la distanza; è un buon modo, credo, quello di avvicinarsi alle cose misurando sempre quanto se ne è lontani».
«Il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresentare le
persone e le cose sulla pagina, non perché l’opera conta piú della vita,
ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in
un’appassionata relazione col mondo delle cose, potrà definire in
negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso».
Italo Calvino
Con questo suo esordio cosí luminoso e inclassificabile, nel 1983 Daniele Del Giudice apriva una nuova strada per il romanzo italiano. Lo stadio di Wimbledon è la storia di un incontro impossibile, quello tra chi in queste pagine dice io e un non-scrittore morto da anni, una figura evanescente e inafferrabile, decisiva per la società culturale del suo Paese pur senza aver mai scritto una riga. Il protagonista si mette sulle tracce di quest’uomo irraggiungibile e conosce chi una volta l’aveva amato, calpesta i suoi stessi marciapiedi, si fa largo tra le maglie della memoria nella speranza impossibile di trovare risposte al suo enigma: perché non ha lasciato qualcosa di scritto? Ma in fondo, come suggeriva Calvino nella quarta di copertina, chi sia quest’uomo e da cosa fosse mosso non è poi tanto importante. A contare davvero sono le domande e le inquietudini che attraversano il libro, e la dialettica tra letteratura e vita che va in scena appena sotto la superficie delle frasi. È meglio rappresentare la vita delle persone o agire su di essa? Raccontare o esistere? A contare davvero è la luce di una scrittura senza eguali.
Da sempre l'uomo si è chiesto <<Io chi sono?>> o, come la mette Giacomo Leopardi, <<Ed io chi sono?>>. La domanda ha attraversato i secoli e dato luogo a miriadi di argomentazioni e di ipotesi. Per il momento però non si è trovata alcuna risposta ragionevole a tale interrogativo. Tutto è diventato ancora più attuale, quando il nostro protagonista si è visto alcune parti del suo cervello <<sano>> prima di me quello che sto per fare.
Così facendo si etichetta però implicitamente come non-Io, tutta l'attività di natura cerebrale, per non parlare di quella rimanente del sistema nervoso e del corpo stesso. Quest'opzione genera così' almeno due problemi di carattere generale: l'incapacità di comprendere molti fenomeni del nostro modo di essere - quando si è sani e, a maggior ragione, quando si è malati - e il fatto che quando si parla di cercare noi stessi e di esplorare la nostra vera natura - incluso il venerabile ma frusto motto nosce te ipsum - (conosci te stesso) - , non si parla sempre della sola nostra volontà cosciente, i cui contenuti sono chiaramente plasmati da usi e costumi sociali e spesso figli e tributari di pregiudizi e di <<mode intellettuali>> di ogni tipo, che è ben difficile considerare veramente nostre e, ancor peggio, di DDG.
Siamo allora un monoblocco unico, che abita il nostro corpo. Faccio quindi, questo viaggio (e scrivo). Nel 1983 Daniele Del Giudice apriva una nuova strada per il romanzo italiano. Lo stadio di Wimbledon (Einaudi, Supercoralli?, è la storia di un incontro impossibile, quello tra chi in queste pagine dice io e un non-scrittore morto da anni, una figura evanescente e inafferrabile, decisiva per la società culturale del suo Paese pur senza aver mai scritto una riga.
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“Faccio questo viaggio per capire cosa avrebbe o potuto scrivere se ne fosse stato in grado.
E voglio scriverlo io.
Per lui.”
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La scrittura, la lingua, le parole e le sequenze di parole, magari di una sola riga, mi hanno sempre affsascinato. Sentivo, e continuo a sentire ancora adesso, che la lingua possiede un potere. Percepivo che da qualche parte nell'universo - in un albero, in uno stadio, in un cielo - c'erano delle parole in attesa. Sentivo che le parole erano lì e che qualcuno doveva ascoltarle.
Io sentivo il desiderio dell'incanto. Che non è affatto sentimentalismo. Le storie sono ovunque. Anche ora, nonostante si faccia largo tra le maglie della memoria nella speranza impossibile di trovare risposte al suo enigma: perché non ha lasciato qualcosa di scritto? Perchè vorrebbe scrivere? Chi passerebbe, come ha fatto Flaubert, due settimane a trovare il modo giusto di raccontare il cielo?
Gli evidenti elementi autobiografici di Lo stadio di Wimbledon, mi hanno dato coraggio, mi hanno insegnato a trasformare l'autobiografia dello scrittore in quella del lettore. A fare la transizione da sè all'altro, mantenendo tutta la potenza del sè. In molta prosa che leggo non vedo questa transizione. Vedo spadroneggiare l'io.
Che è d'intralcio.
Si. Ostacola e limita la purezza o l'ardore del libro. Lo vedo in continuazione e mi spiace.
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“Siamo noi i distruttori.
Noi che abitiamo il tempo.
Dopo il nostro passaggio niente è più vivo, mobile, caldo.
Rimangono solo i ricordi, simili ad enormi monoliti preistorici, segnali muti di un’esistenza che la nostra testa di Medusa ha fissato per vivere.”
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Da giovane DDG aveva un vena poetica. Un trattro che le è rimasto?
Si, purtroppo. Mi piacerebbe avere una vita un pò più normale, ma non mi piace il prezzo che si deve pagare. Bisogna sempre imparare, osservsare, essere aperti o permeabili alle cose, e credo sia difficile che questo si accordi con la vita in generale. Ho ereditato quest'etica, sono uno scrittore attento, ma anche avido.
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E ancora: “Non è mia intenzione scrivere una biografia di DDG. A dire il vero non vorrei neanche nominarlo se fosse possibile. Per me è una figura letteraria, capisci, è fatto di libri, di frasi che mi si sono appiccicate addosso. Se è vero che gli autori coincidono con i romanzi che scrivono, dove potrei cercarlo con più sicurezza se non tra le sue pagine?”
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Nel suo libro parla di una mancanza, di una perdita, di un posto, di un ruolo nel mondo?
“Vede, il problema è che lei, con tutti questi stratagemmi letterari, anche divertenti, per carità, come la macchina da scrivere, i finti racconti, i personaggi immaginari, magari ha imbastito una storia interessante, ma resta un punto fermo: dello scrittore lei non sa niente. E’ tutta immaginazione. Se avesse davvero parlato con i familiari o con gli amici, di sicuro avrebbe scritto un libro più banale, una biografia come mille altre, ma almeno non si sarebbe allontanato così tanto dalla verità. Vuole sapere com’era davvero il suo DDG prima della malattia?”
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Allora parla di una perdita?
Si, infatti continua, con questa frase: <<Non crederai quante parole ci siano per definire una perdita un'assenza e che musica selvaggia si possa trarre da esse>>. Io stesso sento la mancanza di una presenza viva e di quel che significa, altrimenti non avrei potuto scrivere il libro che parla non solo di malattia, ma di solitudine e terrore. Non avrei potuto farlo senza i miei terrori.
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Oggi, come si sente?
Svuotato.
Che memoria pensa di aver perduto?
Di sicuro la memoria prossima: se ho detto, letto il giorno prima lo dimentico completamente. Nella malattia si sono attivati i ricordi d'infanzia ma sono di nuovo spariti.
E dunque che significa essere unoscrittore?
Uno scrittore non serve a se stesso, ma agli altri: ecco il senso della tragedia collettiva del '900, una società in disfacimento, moscia e autolesionista.
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