INVITO ALLA LETTURA APPROFONDITA
G. CHAUCER
MONDADORI
Il racconto dei tre gioviasti che si uccidono l'un l'altro per avidità di denaro, tradendosi reciprocamente, nonostante il giuramento di alleanza, acquista il suo vero valore solo se viene, riferito al particolare ritratto dell'indulgenziere. Ammettiamolo francamente: il racconto può forse far colpo su uditori semplicioni e di facili gusti, ma non è certo un capolavoro di abilità. Non si capisce, ad esempio, quale sia la funzione del ladro <<la Morte>> (o l'indulgenziere con questa invenzione vuol anticipare ai suooi compagni di viaggio chechi ruba è destinato a morire? Non sappiamo, non è chiaro), nè quale sia quella del vecchio. Ci aspetteremmo di incontrare, ai piedi dell'albero, il nemico tanto cercato. La vicenda sembrava prepararci a questo. Invece proprio qui il racconto perde di drammaticità, svigorendosi in un'azione intricata e poco verosimile. Ma proprio questi difetti che, se esaminati in sè e per sè, parrebbero limiti evidenti e gravi dell'arte di Chaucer, si rivelano, non appena li rapportiamo a colui che narra la novella, pregi. L'indulgenziere, infatti, non ha cura dei particolari, nè della verosimiglianza: imbastisce una storia qualsiasi, mischiando alla buona vizio, denaro, gioco, strani incontri, veleno e morte. Qui affiora tutta l'ironia di Chaucer: l'indulgenziere, che ha fatto una cosa così lunga predica per condannare il vizio della cupidigia, ne è egli stesso vittima. Ma è più colpevole dei suoi eroi, più sottile e più ipocrita. Chaucer lo ritrae divertito, senza scandalizzarsi, forse conquistato dall'<<arte sua>>. Le molte esclamazioni con cui l'indulgenziere conclude il sermone, e che introducono poi argomenti molto più <<pratici>>, sono un capolavoro d'arguzia.
Quanto al tema principale della novella - la simonia, cioè il mercato di cose sacre - occorre dire che Dante, agli inizi dello stesso secolo di Chaucer, lo trattava con ben altro vigore quando, scandalizzato da questo peccato e soprattutto dalla sua larga diffusione tra gli ecclesiastici, giungeva a porre un papa. Niccolò III, reo d'essersi macchiato di questa colpa, nell'Inferno, e gli faceva profetizzare la prossima e inevitabile dannazione di altri due pontefici. Bonifacio VIII e Cemente V (Inf. XIX).
Ma già Dante, che si ispirava ad una severa e fermissima religiosità, era legato ad una concezione di vita che gli stessi suoi tempi contraddicevano. Nelle opere di Boccaccio e Chaucer compare ora una società che non conosce più nè Inferno nè Paradiso, ma soltanto la terra. In Dante figure come questa dell'indulgenziere sarebbero poste nel più basso inferno e additate al generale disprezzo: in Chaucer diventano semplicemente motivo di sorriso e di divertita parodia. Non vorremmo con questo affermare che quella dello scrittore inglese sia un'arte minore: è semplicemente espressione di un'altra cultura che, a differenza di quella precedente, non prende posizione in materia morale e resta perciò scettica, cinica, mondana, limitandosi a rappresentare la realtà e astenendosi dal formularne un giudizio. Tutto l'impegno di un autore si riduce perciò al tentativo di rendere il <<gioco>> letterario il più scaltro e sottile possibile, come avviene qui, dove l'idulgenziere si condanna con le sue stesse parole e svela in sè quella colpa che era così pronto a supporre e a denunciare negli altri. La sua è, in fondo, una recita, le frasi che dice, lo si avverte specie alla fine, condite come sono di esclamazioni e di invocazioni <<a ripetizione>>, sono battute di repertorio.
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