Pagine 192 - Euro 19
Come eco prolungata e amara di un latrato di cani e di lupi nelle notti di un
raggelato inverno, libro d’esordio di Andrea Esposito, è un dirupo di vertigine.
In una periferia fosca e feroce - protagonista anch’essa, ben oltre lo sfondo
d’ambiente, nel suo essere un inumano “non luogo” ai margini di un acquedotto
romano, più torvo delle evidenti pasoliniane memorie - troviamo Giovanni,
randagio inseguitore di un conforto impossibile in un nulla di degrado e
precipizio. «Giovanni il giorno lavora allo sfasciacarrozze e la sera torna dal
padre. Al risveglio incontra il padre e torna allo sfascio e poi va alle rotaie
morte». L’impiego precario in un sito di auto-distruzione e il ritorno alla sera
in una casa scarna d’affetti e parole, con davanti un giardino di ferraglie
ricomposte in scheletri surreali da un padre che, come dicono, «è pazzo dopo che
gli è morto il figlio». E «se Giovanni domanda il padre risponde, se il padre
domanda Giovanni risponde. Possono stare zitti per giorni». Eppure Giovanni, in
quella figura di padre disturbato, non può rinunciare del tutto a trovare, se
non un porto sicuro, almeno un possibile approdo. «Guardava il padre sforzarsi
di essere un’altra persona. Sforzarsi inconsapevolmente di trasformarsi in
un’altra persona sconosciuta e mostruosa, tendere senza fine a una forma
irraggiungibile e incomprensibile, che a Giovanni appariva solo in lampi di
dolore nelle smorfie del padre. E diceva che uno non è mai una cosa sola. Diceva
che poi col tempo ci diventa una cosa sola, ma all’inizio non lo è mai». Un
padre incapace di vivere ma non di pensare: «Diceva che un uomo oscilla sempre a
metà. Oscilla tra bestia e cosa. Quando mangia è una bestia e quando costruisce
è una cosa. Quando costruisce una porta è una cosa. Quando fa qualcosa che serve
è una cosa. Ma quando è una cosa lo fa per obbedire alla bestia. Costruisce per
allungarsi la vita e durare il più a lungo possibile. La bestia vuole soltanto
durare». Ma non il padre, e men che meno la casa sgangherata, ossimorico simbolo
di precarietà e dissolvenza, possono dare riparo al protagonista di questa
parabola votata all’abisso fin da principio. Solo aspetta Giovanni che «il sonno
sorga e coli su di lui impotente». Poi è un barlume nel suo «continuare a
parlare con parole strane e una voce strana che non sembra la sua e qualcosa lo
dice a se stesso e qualcosa lo dice guardando l’altro negli occhi e senza
guardarlo davvero». E’ la storia di «un uomo solo che deve raccontare una storia
a qualcuno. La storia fermenta nella sua bocca e la deve estrarre. Ma non c’è
nessuno intorno». Fino a incontrare, forse in un sogno o un delirio, il
precipizio e l’abisso. Un’apocalisse che non risparmia nessuno e dove “la gente
aspettava di vedere la gente morire per poterla mangiare”. Un primitivo e ferino
gorgo dantesco senza uscita per sopravissuti, che la paratassi continuata rende
metamorfosi ritmata di spire. Esposito abbonda di serie numeriche e di riprese,
quasi un Chad Gadya che con la sua caducità si fa canzone per echi. «Con il
ciocco dà fuoco al resto della legna e aspetta che il fuoco cresca. Prende il
corpo di uno dei due cani e lo lascia cadere sul fuoco con un piccolo tonfo che
sparge scintille. Posa sul fuoco anche l’altro. Li guarda bruciare». E ancora
«un uomo si è ucciso e un altro è impazzito. Uno è scappato e uno ha aspettato.
Un uomo a quella vista si è ammalato. Allora si è scavato una buca e in questa e
in questa buca si è steso». Narrato in terza persona, con un narratore e
focalizzazione interni, Esposito dà ottima prova d’esordio, anche se le ultime
pagine appaiono a tratti allungarsi a fatica fino all’inevitabile e profetica
Voragine finale.
Andrea Esposito, Voragine, il Saggiatore, Milano, pagg. 192, € 19
Il libro
Ai margini di una città assediata, distrutta, che è ieri ed è domani,
è qui ed è altrove, vive qualcuno di nome Giovanni. La sua casa è sulla
terra incendiata dal gelo, in una periferia esangue, accasciata sul
relitto di un acquedotto romano nei pressi di una ferrovia morta. È la
casa in cui Giovanni vive e il padre e il fratello muoiono. È la casa da
cui Giovanni viene cacciato e da dove comincia un vagabondaggio tra
tunnel, ruderi infestati da cani, carcasse di automobili e uomini
spaventati.
Uomini dominati da un ferino istinto di sopravvivenza,
da un’insensatezza che è costruzione e sfacelo. È destino. Una voce lo
segue e lo spinge a testimoniare la fine di un mondo che non smette di
finire, perché l’assedio della città c’è sempre stato. La voce atona di
un profeta retroattivo, priva di pathos, che registra la violenza senza
un sussulto ma rimane ipnotizzata dalla materia; che parla da un buio e
da un vuoto, nomina, è interiore e rimbomba nell’ovunque. La voce che
accompagna Giovanni fra le macerie mentre uomini ciechi si divorano l’un
l’altro, lo scorta fra incubi di bambini in fuga e supermercati
saccheggiati, in una regione più scura del sonno, senza fame e senza
vita.
Voragine è un paesaggio metafisico, un’apocalisse
di rottami, l’endoscheletro di un romanzo di formazione. È l’esordio di
Andrea Esposito, un narratore che, come un Piranesi distopico, trascina
le sue rovine in un futuro anteriore, prossimo e remoto; e, con frasi
che risuonano come colpi di martello sulla lamiera, racconta una ferocia
che è organismo e linguaggio, componendo la fiaba nera di un passato in
macerie, di un millennio in disfacimento, di un presente orfano.
Andrea Esposito
Andrea Esposito (Roma, 1980) è autore dei romanzi Voragine (2018) e Dominio (2021), pubblicati dal Saggiatore.
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