Una tribù di amici come <<invasi da un sangue fraterno>> sta al centro del romanzo di Andrew O'Hagan, che mette insieme avventure giovanili, fantasmi esistenziali e mancanze. Alla fine il vero protagonista è uno solo: il tempo che fugge.
Caterina Giuseppa Buttitta
Alla fine della stagione (senza accorgersene)
Pochi anni che però sembrano millenni, e questa storia sembra roba d'altri. Sono anni lividi; dentro i quali sia aprono flashback familiari in cui il narratore, autentico protagonista, nel tentativo di chiarire il mistero che avrebbe posto fine a quei momenti nei quali certo <<siamo stati anche felici, sfacciatamente>>. Un mistero di nome provincia: vuol dire rischiare di non andarsene mai. James, che ama i libri, e Tully, operaio saldatore, ma proprio perchè in queste riflessioni ti rendi conto che il ragazzo, <<dall'inattitudine al futuro, che <<non era in grado di ragionare fuori dalle certezze e le certezze sentimentali erano in lui più solide di quelle matematiche>>, ma restava però <<abilissimo nell'eludere le domande>> e <<sempre pieno di misteri>>, oltre che per gli amici, soprattutto per Tully. Da qui il suo reimmergersi - tra ricordi e rivisitazioni, evocazioni e dialogo, con Tully che si rivolge spesso al suo amico - oggetto di quei lontani <<giorni raminghi>> di <<allegria inconfondibile, feroce, contagiosa>> e di <<fiducia>>, per proporre una propria <<versione dei fatti>> nella quale anche gli amici si ritrovano a muoversi, come <<un pascolare stanco di fantasmi negli occhi>>, in un mondo che ormai <<non esiste più per come l'abbiamo conosciuto>>.
Una <<tribù di matti>>, quella di Andrew O'Hagan, resa a <<collezionare più avventure possibili, perchè su un punto eravamo tutti d'accordo: non c'era tempo da perdere>>, e della quale James è il catalizzatore. Di qui il riaffacciarsi di scorribande notturne, i viaggi, gli incontri, dove ognuno si rivive attraverso una propria visione.
Una tribù che - <<è mi accorgo ora, nello scrivere di noi, di ragionare come fossimo tutti collegati a un unico cuore, alimentati dallo stesso muscolo, invasi da un sangue fraterno che avrebbe retto anche nella prova del Dna>> - vive però un tiramolla tra cercarsi e sfuggirsi, fare gruppo e stare soli. Per il narratore, significa recuperare tasselli di memoria dal passato infantile e familiare. Flashback funzionali però non tanto all'andare a ritroso nella storia del nostro corpo, dal presente al passato, dalla sua posizione attuale alla più lontana nello spazio e nel tempo di questa direzione.
<<A che genere poteva appartenere quella sua vita che lo invitava a non cambiare mai?>>
Ed è in quresto ripercorrersi - con una memoria che recupera paure - (proprie dell'infanzia) e fantasmi - che emerge il vero protagonista del romanzo, del quale il narratore è proiezione, e con la sua scomparsa addirittura simbolo: ossia il tempo, <<mio fantasma antichissimo>>. La sua fuggevolezza. Quel fiato di tempo di <<quando ci siamo svegliati, una mattina, ed era già tutto finito, archiviato per sempre senza essercene resi conto>> e che svanisce - come Tully. Anche in questo Effimeri è un romanzo di mancanze. Di quelle tante <<domande che ci abitavano allora>> e <<quante poche risposte>>. Di quell'addio che non riesci a dare a una stagione perchè nel momento in cui ti rendi conto del suo passaggio, <<ha già girato l'angolo>>.
Caterina Giuseppa Buttitta
Narratori stranieri
Effimeri
Andrew O’Hagan
Andrew O’Hagan
Andrew O’Hagan è nato a Glasgow nel 1968 e vive a Londra. È stato tre volte finalista al Booker Prize. Collabora con la London Review of Books e la New York Review of Books. Nel 2010 è diventato membro della Royal Society of Literature. Libro dell’anno per il Guardian, lo Spectator, il Sunday Times, il Financial Times e l’Evening Standard, Effimeri ha vinto il premio Christopher Isherwood per la prosa autobiografica e il Waterstones Scottish Book Award. O’Hagan è anche l’autore del saggio La vita segreta. Tre storie vere dell’èra digitale (Adelphi).
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