IL NOVECENTO
Le contraddizioni e le inquietudini che la cultura europea manifesta sul finire dell'Ottocento s'intensificano e si aggravano ai primi anni del secolo seguente. Da una parte la borghesia industriale sempre più potente tende a promuovere, all'interno, un'azione repressiva nei confronti della classe operaia e, all'estero, una politica di conquiste, dall' altra le forze del proletariato, si irrobustiscono e minacciano di abbattere le istituzioni mediante una rivoluzione violenta.
Da questa situazione assai tesa, deriva la politica imperialista e coloniale, resa necessaria dal desiderio - da parte dei governi dei vari stati - di impadronirsi delle terre da cui estraggono le materie prime, dal tentativo di eludere i problemi sociali dei singoli paesi e di trovare un'occupazione a tutti coloro che la civiltà industriale ha ridotto alla miseria, o di tenerli comunque impegnati in azioni militari.
L'equilibrio tra le potenze d'Europa, costrette tutte, per la comune crisi che le travaglia, alla medesima politica espansionistica, è assai precario e si rompe con la prima guerra mondiale.
L'Italia stessa mentre si avvia con la guerra di Libia (1912) a diventare una potenza di livello europeo è turbata da questa crisi: allo sviluppo industriale del Nord si oppone la secolare arretratezza del Sud; perdura, seppur mitigato, il contrasto tra Stato e Chiesa; il parlamento, eletto solo da un ridotto numero di cittadini, non attua una politica conforme alle reali esigenze della nazione.
In questo stesso periodo i miti dell'imperialismo acquistano un maggior credito: alimentati anche dalla politica di potenza perseguita dalla Germania, mentre vien meno in diversi paesi d'Europa la fiducia nelle istituzioni dello Stato liberale.
Lo stesso Risorgimento appare come un'età perduta, che si rievoca con nostalgia, ma di cui non si riesce più nè a custodire l'eredità nè a tradurre in atto il vero messaggio.
Tutta la cultura del tempo, italiana e straniera, esprime o l'esaltazione retorica dell'aggressività o la disperazione per la perdita di ogni valore spirituale. Tale aspetto si fa più evidente dopo la prima guerra mondiale, in coincidenza con la conquista del potere da parte del fascismo e del razismo.
Mentre la libertà dell'individuo è così seriamente minacciata, la cultura esprime una crisi che non ha riscontro in tutta la storia dei secoli passati. Tutto appare privo di significato, misterioso, ostile: Pirandello proclama l'impossibilità per l'uomo di conoscere la verità, anzi nega l'esistenza di una sola verità e la moltiplica per il numero di coloro che la ricercano, riducendola a impressione soggettiva: Ungaretti scrive liriche con versi brevi, secchi, dominate da immagini di desolazione e squallore; Kafka raffigra l'uomo come un essere perseguitato da un destino implacabile contro il quale non può difendersi.
Un'epoca, dunque, di crisi: gli scrittori rompono ogni contratto, ogni legame con le poetiche del romanticismo e del verismo affermando una nuova poetica in cui la struttura del racconto, fondandosi sul monologo interiore, sul ricordo, sui conflitti psicologici disperde una volta per tutte l'impianto tradizionale del romanzo.
Angoscia e disperazione, riduzione della vita a una gelida attesa della morte sono i caratteri della cultura del Novecento. Poi, con la seconda guerra mondiale, gli scrittori hanno sperimentato una crisi, se possibile, ancora più profonda. Hanno partecipato al conflitto, ne sono stati sconvolti, hanno dubitato persino della loro funzione.
Usciti da questa esperienza, oggi esprimono con voce ferma e pacata, in cui è ben avvertibile l'eco di tanto dolore, la fede che gli uomini, superati gli odi politici, razzistici, ideologici, sappiano vivere liberi sulla terra, nel segno di una ritrovata fratenità.
La cultura contemporanea è appunto sospesa tra le memorie di un pauroso passato e il timore di un futuro ancor più tragico. Tra queste due immagini di morte si fa strada, ancor timidamente, la speranza nella vita.
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