giovedì 9 giugno 2022

PREMIO STREGA 2022: PER LA PRIMA VOLTA I FINALISTI SONO SETTE.

 


Premio Strega: per la prima volta i finalisti sono sette

“Spatriati” di Mario Desiati prevale con 244 voti, secondo Claudio Piersanti con “Quel maledetto Vronskij”

È stata tutta colpa di Antonio Scurati e Paolo Giordano se alcuni venerandi scrittori non sono approdati nell'ambita dozzina del 76esimo Premio Strega, e di conseguenza neppure nella “cinquina allargata” annunciata al Teatro Romano di Benevento. Per la prima volta infatti nella storia del premio due ex-equo e il riconoscimento al piccolo editore fa salire a sette il numero dei papabili. Nella votazione “Spatriati” di Mario Desiati prevale con 244 voti. Secondo Claudio Piersanti con “Quel maledetto Vronskij” (Rizzoli), 178 voti, terzo Marco Amerighi con “Randagi” (Bollati Boringhieri) 175 voti, quarta Veronica Raimo con “Niente di vero” (Einaudi) , 169 voti. Ex equo con 168 voti Fabio Bacà con “Nova” (Adelphi) e Alessandra Carati con “E poi saremo salvi” (Mondadori). Ripescato “Nina sull’argine” (Minimum Fax), 103 voti, di Veronica Galletta.

Suggeriscono i sussurri provenienti dagli Amici della Domenica l’esclusione a priori di alcuni autori meno giovani. Se Roberto Pazzi con il suo nuovo Hotel Padreterno (2021) non è riuscito ad avvicinarsi alla gloriosa bevuta, non è stata una débâcle. Almeno non in toto.

Il Premio ha sempre coniugato il coronamento di una carriera a esigenze di rinnovamento della tradizione. Ma oggi pare che la volontà originale della Bellonci sia stata negata a favore di scelte giovaniliste, quasi la scrittura non sia giovane da sé quando è alta e disinvolta. Basti pensare all'esordio da sessantunenne di Bufalino, nel 1981, con Diceria dell'untore e la sua imprevedibile scalata al Campiello.

Scandali e paradossi

D'altronde, l'eco dello Strega è dipesa spesso da polemiche, scandali e paradossi che hanno insaporito la cerimonia per più di mezzo secolo.Con Vangelo di Giuda (1989), Conclave (2001) e L'erede (2002), per citarne alcuni, Pazzi ha scommesso sul sacro senza smettere di alimentare la sua fame di epos e mai allineandosi alla dottrina teologica, ma manipolando liberamente il patrimonio di credenze cristiane: la Bibbia rimane una miniera immensa per chi come lui non teme di essere blasfemo. Parimenti non condivide la cecità del micro autobiografismo nostrano men che meno l'aderenza alle cronache da edicola di coloro che definisce «a caccia di clienti, alla maniera di Raimo e Desiati». In barba al suo diniego, però, Valeria Raimo si è aggiudicata lo Strega Giovani 2022 giusto ieri sera grazie a lettori giovanissimi. Con 96 preferenze su 573 voti espressi, Niente di vero (Einaudi) è stato il romanzo più votato da una giuria di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni, provenienti da oltre cento scuole secondarie superiori distribuite in Italia e all'estero, tra Berlino, Bruxelles e Parigi.

Prima l’estetica, poi l’etica

«Inevitabile quel destino associarlo all'anziano in cappotto cammello, pashmina al collo, Borsalino nero, scarpe a coda di rondine, guanti gialli. La barba di neve, un naso affilato, le borse sotto gli occhi»; sebbene impeccabile, il protagonista di Hotel Padreterno è molto diverso da un altro spettatore consapevole del cupio dissolvi ambientato nella Roma capitolina, il rampante quanto rassegnato Jep Gambardella di Sorrentino. In queste pagine Roberto Pazzi sfiora il limite estremo del genere fantastico e lo mette in relazione all'evidenza della realtà: Giovanni Eterno decide di tornare sulla terra poiché gli italiani sono il popolo che più disubbidisce al suo comandamento “crescete e moltiplicatevi”, che rinuncia al futuro per confinarsi nel presente. Dopo aver preso alloggio nella pensione Livilla di foggia pirandelliana, tra via Nazionale e Piazza della Repubblica, il vecchio Dio entra nella quotidianità di chi incontra con cordialità e delicatezza. La drammaturgia dei personaggi e i dialoghi abissali, ma mai paludosi, incarnano nel protagonista ciò che chiunque vorrebbe sapere, ossia se Dio possa davvero nascondersi tra gli esseri umani e li ami talmente da mettersi al giogo del tempo e della sua deriva mortifera. A differenza di Cristo, che secondo la tradizione è stato concepito per conoscere e patire i limiti umani tramite le sue stesse membra, Eterno viene al mondo paradossalmente, affetto da amnesia e non essendo mai nato.

Un fantastico esistenziale

«Anche l'eternità invecchia»: la storia si apre con la sentenza finale de L'ombra del padre (2005) e con un gesto empatico del protagonista, che di miracoloso ha soltanto il risultato. In metropolitana Eterno incrocia Anna e il figlio Davide, il bimbo di nove anni al quale si affeziona e che avverte subito essere affetto da una malattia incurabile; morbo che sparirà con la sola imposizione delle mani sulla sua testa, offrendo a lui e alla madre un nuovo inizio. Davide è l'unico che percepisce e accetta l'elemento divino, mentre gli altri lo ignorano o perfino lo rifiutano, benché in abito talare; d'altro canto, di fronte ai bambini gli adulti ritrovano le radici della loro identità, dei loro nomi propri. Per quanto Eterno racchiuda in sé anche la pluralità del pantheon greco e alcuni lineamenti dei riti pagani fagocitati dal Cristianesimo, manifesta una tenerezza per ciò che si consuma inconsueta agli antichi dei. Quando riconsacra il quotidiano, Pazzi pare rivolgersi alla lezione di Byung-Chul Han ne La scomparsa dei riti (2021): nella società del “mordi e fuggi” la ritualità di cui il romanzo è stipato raffigura una nuova liturgia terrena, lontana dal manierismo ostentato del Vaticano, e restituisce magia e festosità a un mero sopravvivere. E a tal punto da essergli riconosciuto da Papa Francesco via lettera lo scorso inverno. Il confronto costante con il fascino e le contraddizioni dell'esperienza reale palesano l'influenza che il fantastico ariostesco esercita sul bacino immaginifico dell'autore, ferrarese di adozione, a partire dal volo sul drago fuoriuscito da una copia del San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, esposta agli Uffizi. Sul dorso del mostro monta con il piccolo Davide e vola nei cieli toscani: Eterno accede al museo per recuperare i secoli dimenticati, ma alla nostalgia della perfezione preferisce uno sguardo fuori, alla pre-creaturalità delle cose, lasciandosi trasportare dalla spontaneità della vita non artefatta, non ristretta in un'emulazione. L'arte è altresì l'archivio della memoria e perpetua la funzione salvifica della bellezza, a cominciare dal putto con i capelli rossi in copertina.

Solo per amore

Il solo modo per inverare il sentimento amoroso è insieme agli altri, coralmente; perciò Pazzi personifica l'Assoluto senza avvalersi di parabole, bensì ridando dignità a ogni singolo vissuto, perché il limite rende visibile e tangibile l'amore per il prossimo. La finitudine a cui si sottopone Eterno mette in risalto la portata del suo sentimento: è l'esperienza corporale che lo conduce a desiderare di morire al pari del figlio. Chiamando in causa una messa in scena dell'Amleto di Shakespeare, l'autore chiarisce il suo concetto di paternità e diffonde un messaggio generazionale di speranza: le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, così le generazioni precedenti non devono sacrificare le nuove per paura di dissolversi.Il tributo alla poesia e a una certa canzone d'autore, distinguibile dai brani di Tenco e di Gaber che risuonano nell'aria della Capitale, non poteva mancare: «Mi riposava guardare i vivi affaccendarsi intorno a me», pondera il protagonista parafrasando Umberto Saba, «nulla riposa della vita come la vita». L'approccio in versi trasmette i frammenti di una verità onnicomprensiva e impenetrabile, nella quale tutti sono immersi e che si compie ciclicamente nella natura. Di rilkiana memoria sono gli angeli irresistibilmente belli che talvolta fanno visita al Creatore per informarlo sui santi in rivolta, ma anche la necessità di imparare a morire, ovvero la consistenza stessa dell'intera esistenza: «E che gioco sarebbe andarmene in giro senza sapere chi sono?».

 

 

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