Come mio fratello
Uwe Timm
pubblicato da
Sellerio Editore Palermo
Il romanzo più famoso di Uwe Timm, una riflessione sulla scelta e la responsabilità, sul male e le sue conseguenze. Un libro che nasce da un gesto di grande onestà intellettuale ed emotiva, oltre che di consapevolezza storica: scavando nella colpa e nella memoria disegna il ritratto impietoso della generazione che ha reso possibile il nazismo.
Il libro
«Un armadio per le scope, dall’armadio spuntano dei capelli, capelli
biondi: poi sbuca fuori lui, mio fratello, e mi solleva in alto». È
l’unica immagine che l’autore, allora bambino, conserva del fratello
maggiore. Ma subito il ricordo si fa cupo: Karl-Heinz, il fratello, si
arruolò poco dopo nelle Waffen-ss, le ss combattenti, per morire
nell’ottobre del 1943, ad appena diciannove anni, durante l’invasione
nazista dell’Ucraina. A sessant’anni di distanza – dopo la morte dei
genitori così da poter scrivere «senza riguardo nei confronti di nulla e
di nessuno» –, Uwe Timm si dedica a questa stringente, quasi spasmodica
inchiesta sul fratello SS. I propri ricordi di bambino ne forniscono le
prime emozioni; poi quelli più oggettivi degli adulti; e le carte: le
lettere dal fronte e il suo breve diario, con i non detti e le allusioni
da decifrare, o addirittura il loro dire qualcosa per intenderne
un’altra. Una domanda domina: mio fratello si macchiò delle atrocità sui
civili e sugli ebrei in Ucraina? E come poteva, il ragazzo grande che
mi raccomandava mitezza per lettera («mammina mi scrive che vuoi
ammazzare tutti i russi e poi scappare con me. Bambino mio, questo non
va, e se tutti facessero così?»), essere nello stesso momento parte
dell’orrore? Così l’indagine si allarga ai vecchi: il padre
tradizionalista; la madre più scettica; i brandelli di vita sotto il
nazismo. Ma è il dopo che svela di più, la quotidianità dell’epoca della
reeducation e del primo boom economico, quando si reagiva in un certo modo al «rimprovero della colpa collettiva».
Come mio fratello
ragiona sui sillogismi pratici che potevano portare «i cultori di
Mozart e di Hölderlin» alle disumane crudeltà; spiega le strategie
psicologiche per aggirare il rimorso comune, così scoprendo zone del
passato che solo la verità letteraria può raggiungere: racconto,
immagine, descrizione, riflessione.
Un libro bello, triste e intelligente, che cerca luce nella complessità della memoria, della vergogna e dell’espiazione.
Autore
Uwe Timm (Amburgo, 1940) ha ricevuto numerosi premi per la sua narrativa, tra cui il Premio Napoli e il Premio Mondello nel 2006. Questa casa editrice ha pubblicato Un mondo migliore (2019), sui benintenzionati pionieri della eugenetica poi sfociata nel nazismo, La scoperta della currywurst (2020), ambientato nella Germania del difficile dopoguerra e Come mio fratello (2023), ritratto impietoso della generazione che ha reso possibile il nazismo..
Altri titoli in catalogo
RECENSIONE
Uwe Timm è uno dei più interessanti autori tedeschi di oggi. L'immediato dopoguerra indagato e ricostruito dai suoi romanzi è cerniera per capire la Germania di oggi attraverso quella di ieri, con belle invenzioni e senza infingimenti, dal più impegnativo ''Un mondo migliore'' al godibilissimo ''La scoperta del Currywurst''.
Per
capire da dove arriva questa vena ecco ristampato, a 20 anni dalla prima
edizione Mondadori, ''Come mio fratello'', scritto nel 2003, dopo tanti
libri per ragazzi e volumi di poesie, in cui non romanza più, ma indaga
il suo passato famigliare, cercando di scoprire qualcosa di suo
fratello, morto sul fronte orientale, durante l'ultima guerra, quando
lui era un bambino piccolo, essendo nato nel 1940.
E' un
percorso doloroso quello di Timm, una faticosa, straziante e impietosa
presa di coscienza che lo riguarda personalmente, come riguarda la
storia tragica e recente di tutta la Germania, il rapporto di normali
cittadini borghesi col nazismo. ''Da quando lavoro a questo libro.... da
quando giorno dopo giorno leggo dell'orrore, dell'inconcepibile, mi
fanno male gli occhi.... Non sono particolarmente sensibile al dolore,
ma questo dolore non mi lascia dormire.... io che appartengo a una
generazione alla quale era stato proibito piangere, io piango, come
dovessi piangere tutte le lacrime soffocate, piangere anche per
l'ignorare di mia madre, di mio padre, di mio fratello, per quel che
avrebbero potuto, dovuto sapere.... Non hanno saputo perché' non
volevano sapere, perché hanno allontanato lo sguardo''.
Il fratello, Kurdel, si scopre infatti che si era arruolato volontario nelle SS e solo dopo la morte della madre lo scrittore riesce a andare a rileggerne le lettere, a ricostruirne la memoria e la storia, fatta di violenza e appunto di sguardo che passa oltre. ''E nulla, questa e' la terribile conclusione, non l'educazione e la cultura, non la cosiddetta vita spirituale ha impedito ai carnefici di compiere le loro atrocita'''.
Timm ricostruisce il suo rapporto con Kurdel bambino, la sua educazione e il mondo ideologico, l'insensibilità. Ricorda e riflette (letta una nota su una sua lettera) sul suo sparare a un russo coetaneo che vede in lontananza fumarsi in pace una sigaretta, ne annota le omissioni e i silenzi (''non scrive mai, da nessuna parte, che venivano fatti dei prigionieri'', non si parla dello sterminio di oltre 33 mila ebrei a Babij Jari) e arriva a chiedersi che avrebbe fatto Kurdel se fosse stato assegnato al corpo di guardia di Auschwitz o Dachau. E lo fa riportando nel testo l'ordine del 10 ottobre 1941 del feldmaresciallo von Richenau: ''Il soldato nei territori orientali non è solo un combattente, ma è anche il depositario di una concezione inesorabile della razza e del popolo, un vendicatore di tutta la brutalità inflitta alla stirpe tedesca.
Per questo il soldato deve comprendere appieno la necessita' della dura, ma giusta espiazione imposta all'inferiore razza ebraica''.
Per lo scrittore poi ancora più forte è la ricostruzione del rapporto col padre (''Il tentativo di riscontrare momenti di grande vicinanza attraverso la memoria, riesce unicamente se mi raffiguro situazioni in cui noi due soli abbiamo fatto qualcosa assieme'') che si scontra con l'atteggiamento che questi ebbe durante la guerra e dopo, quando cercava di relativizzare la colpa tedesca (perché gli alleati non bombardarono i lager, visto che sapevano?) e giustificava i comportamenti con l'assolutorio obbligo di eseguire gli ordini. E poi aggiunge annotazioni, per esempio, su uno zio SS, ex guardiano del lager di Neuengamme, che era stato fatto prigioniero: ''miricordo il suo lamentarsi del fatto che gli americani trattassero male i prigionieri''.
Un libro, un autore, un uomo che ormai ha deciso di non arretrare davanti a nulla, per capire se stesso, ma anche il mondo in cui vive, quindi accetta per esempio un invito a un convegno a Kiev quasi solo per poter cogliere l'occasione di recarsi sui luoghi dell'Ucraina in cui morì e combatté il fratello. Un racconto lucido, dietro il quale si sente il tremare della mano che scrive, ma che ha acquistato una trasparenza e solidità essenziale adamantina, senza divagare, senza fronzoli o parole in più, per mettere in luce i particolari come guardandoli sotto una lente, nudi nella loro forza intrinseca e rivelatrice. E ogni commento gli apparirebbe volgare, prima che superfluo, tranne una notazione essenziale, che è anche un monito: una ''affermazione continuamente ripetuta perciò viene giustificata: non lo sapevamo. In realtà non si voleva vedere, si era distolto lo sguardo''.
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