Un cupo giorno di vacanza di Ines Cagnati
Inès Cagnati
Giorno di vacanza
Adelphi
TRADUZIONE LORENZO DI LELLA E FRANCESCO SCALA
Il libro
Non si può crescere in un paese di paludi, di piogge, di nebbie, di
terre livide dove tutto muore, senza rimanerne segnati per sempre: di
più, senza assomigliare a quel paesaggio inamabile. Né vivere in una
casa fatiscente, sperduta fra boschi, malerbe e acque solitarie, dove
anche l’amore è intollerabile violenza, senza desiderare che il mondo
intero esploda «in una girandola di sangue». Nera come una zingara,
taciturna come uno strano fiore selvatico, traboccante di rancore e di
disprezzo per se stessa, Galla vorrebbe solo andarsene via, lontano dai
troppi lutti, dal peso delle innumerevoli sorelle, da un padre abbrutito
dal lavoro, dalla madre che ama troppo per sopportarne la dolente
presenza. Ma l’unica possibilità di fuga, oltre ai sogni, è la vecchia e
fragile bicicletta dal lamento di salamandra morente, e l’unica meta la
scuola dov’è interna, a trentacinque chilometri, in città. Un tragitto
che separa due vite e due mondi inconciliabili – la pietraia che non dà
frutti e le terre miracolate dalla fertilità –, e che un sabato Galla
decide di percorrere per rivedere la madre: sarà un giorno di vacanza
sinistro e fatale, dove tutto precipiterà, rivelandole il senso di ogni
cosa. Perché il malevolo, straziante paese da cui proveniamo – sembra
dirci Inès Cagnati con la sua prosa di insolente intensità – è la carne
stessa di cui siamo fatti, e possiamo, se non sbarazzarcene, almeno
intravedere nel ricordo le meraviglie di cui era fiorito.
Capita così che andandosene un giorno, a lei che sa come nessuno la volesse quando è nata e che avrebbe preferito non nascere, scappa di urlarle "Vorrei che non fossi mia madre". Parole che poi la perseguitano e la spingono a scappare dal suo istituto per tornare a dire che non pensava quel che le ha detto.
È il giorno di vacanza del titolo, ma quel termine vacanza è oggi sviante e credo sarebbe stato meglio tradurre l'originale congé con congedo, un congedo dalla vita che in quel sabato cupo e ferale sarà tutta da recuperare, ritrovare per poter andare avanti e appunto sopravvivere. Sarà la sua bicicletta, il suo "bene più prezioso" che avanza "lamentandosi come una salamandra" e ha la fortuna di avere le gomme piene che la salvano dal fermarsi di continuo, scivolando alla fine nel fiume, inghiottita dalle acque, a dare il segnale del suo distacco dalle origini senza più il mezzo per tornare a casa.
Lettura credo più corretta di quella che offre una possibile ambiguità, segnando invece il naufragio della stessa protagonista. Il fatto è che Galla in quel suo mondo scuro tutto sassi, gelo e fango, dove solo per disperazione il padre tenta di coltivare qualcosa, rappresenta comunque l'unico vero attaccamento alla vita con la speranza che possa essere diversa, così come esistono posti in cui la terra è invece buona e fertile, una compagna di scuola come Fanny che "è come un luminoso sole di primavera" o animali come il suo amato cane Daisy che lei sì sa essere "una buona madre".
Una buona madre anche per Galla stessa che la accoglie nella sua cuccia e la riscalda quella notte in cui, arrivata a sorpresa a casa, il padre non la fa nemmeno entrare, anzi la minaccia e scaccia richiudendosi dentro, da dove nessun altro si fa vivo e quel che è accaduto alla madre con quell'uomo violento e col bastone sempre pronto in mano non viene detto esplicitamente e la ragazza sembra non riesca nemmeno a pensarlo, ma il lettore lo intuisce subito. E con questa ombra sinistra che procede quella giornata di ricordi e fatale resa dei conti.
Un ambiente e personaggi primordiali, di amori disperati e rabbiosi. Una storia estrema e cupa, segnata dalla morte e dalla palude che tutto inghiotte, dai sassi su cui nulla cresce e dal ghiaccio che attanaglia ogni cosa, raccontata con anche troppa insistenza e sottolineature quasi ripetitive a rimarcare una situazione che si può dire infernale e nera in cui l'unico lumicino è forse appunto la vita di Galla, che pure, sempre angociata e con la paura di essere ingiusta, di sé dice "somiglio alle pozze della palude: è terribile essere come me".
Un gioco rabbioso e senza retorica ma che alla fine appare un po' quasi manieristico, nonostante una bella aspra scrittura in questa opera prima datata 1973 della Cagnati, figlia di contadini veneti emigrati in Francia, scomparsa nel 2007 a 70 anni, che troverà invece una propria misura e soluzioni narrative più articolate e dolenti in 'Génie la matta'.
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