Mary B.Tolusso
«L’esercizio del distacco»
Bollati Boringhieri
Torino, pagg. 174, € 14
Tre esistenze sospese nel tempo e ravvicinate nello spazio chiuso di un collegio esclusivo, in una terra di confine, e una città misteriosa, che è Trieste senza mai nominarla. «Emma sognava un inizio. David sognava una fine. Io tra loro in un tempo che ancora scorreva naturalmente, a una velocità impressionante. La felicità». È il romanzo di Mary B. Tolusso, edito da Bollati Boringhieri, una riflessione sullo scorrere del tempo e l’inevitabile rimpianto per un’epoca, quella della giovinezza, che ha segnato invariabilmente le vite dei tre giovani protagonisti, come di ogni adulto. Con un ottimo incipit - che poi è architrave del tempo della fabula come del tempo dell’intreccio, fatto di molte analessi e pochissime, claustrali ed effimere prolessi – che per questo romanzo di formazione costituisce una vera e propria dichiarazione di poetica: «Tutti hanno vissuto ore fatte di una felicità assoluta, alla quale non si dovrebbe sopravvivere». Altrimenti declinato in: «Stavamo insieme, ma il triangolo si è scomposto, i lati si allungavano». E ancora: «Conservo questa immagine con la stessa cura con cui ho conservato il mio ciondolo al collo, la chiave azzurra della cancellata. Ogni tanto porto la mano alla gola e sfioro la lama intagliata e incastonata nel metallo nobile. Quel tocco dà credito alla mia esistenza. Allo stesso modo l’immagine di David , esausto e sudato sulla battigia, dà credito a un’idea di felicità». Il tutto con le sfumature di una gabbia, Genet insegna, che può essere anche confortevole rispetto alle atrocità del mondo: «Fino a che siamo rimasti in collegio la vita fluì con una rapidità disarmante. C’erano lo studio, lo sport o gli incontri nella platz tra pochi rami e molti sguardi. I nostri destini erano programmati, destini pieni di buoni propositi che ci apparivano lunghi come l’infinito. Eravamo simili a orologi senza lancette, allora, incapaci di pensare a quanto può essere crudele il tempo. I nostri genitori erano ricchi a dismisura. E spendevano a dismisura per la nostra educazione. Avremmo capito poi che quelli sarebbero stati i ricordi più intensi delle nostre vite». Giocato tra l’inevitabile nostalgia per uno status di confortevole costrizione nella fase più bella della vita, questo romanzo porta con sé fin dal titolo la lezione sull’esercizio del distacco di Mme de Merteuil, solo che qui il distillato finale è tra «sopravvivere o morire». Con un’avvertenza: «non ci si abitua alla vita senza l’amore». Ed è proprio sull’altare dell’amore che questo libro, scritto per altro con uno stile controllato e sobrio, sacrifica non poco, cedendo talvolta al sentimentalismo più facile con corredo evocativo di «abat-jour rosse» e «pollo fritto». Ed è un peccato, perché questo malinconico e affascinante triangolo scaleno che è L’esercizio del distacco, nel suo aggrapparsi ai ricordi della primavera della vita, ha in sé tutte le caratteristiche di un grande romanzo, ma più che una farfalla è una falena «e le falene sono sempre attratte da una luce sintetica che le ucciderà, da qualcosa di fasullo», che qui ha le caratteristiche del forzatamente struggente.
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