domenica 1 ottobre 2023

DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI VERITA'?

 


Lidea che il mondo contemporaneo abbia anzitutto un <<problema di verità>> è diventata un'idea dominante nei discorsi pubblici. La letteratura sull'argomento è cresciuta in modo esponenziale, ma non sembra che ci siano idee chiare e condivise circa la natura del problema, e perchè e come possiamo occuparcene e se possibile risolverlo. Di che cosa parliamo quando parliamo di verità? Perchè abbiamo ancora <<la volontà di verità>> (che Nietzsche giudicava discutibile), e non ci siamo arresi allo <<tsunami>> dell'informazione digitalizzata?

La risposta non è chiara, e la filosofia non aiuta molto. La quantità di teorie, la loro complicazione, le diverse prospettive in cui vengono formulate, rende inutile ogni sforzo di unificare la filosofia della verità (operazione tentata con scarso successo da Theodora Achourioti e altri studiosi in un volume edito da Springer nel 2015), è usarne i risultati. Bisognerebbe ridurre le divergenze, e non è facile. In generale l'arte della riduzione senza sacrificio è difficile, e in questo caso il gtema sembra troppo vasto e troppo frequentato.

Ma forse si può iniziare a riflettere su alcuni tipici fraingtendimenti che riguardano il concetto di verità, e provare a dissolverli. Il primo riguarda il significato di <<vero>>. Che cosa intendo dire quando per esempio dico <<quel che ha detto Gilles è vero>>? La risposta ovvia è: intendo dire qualcosa come così stanno le cose: <<quel che ha detto Gilles è vero>> = le cose stanno così come Gilles dice. Un filosofo, o una persona informata di fatti filosofici, direbbe che questo significato realistico del termine è molto discutibile, e che quando parliamo di verità parliamo di coerenza, o di utilità cognitiva, o semplicemente aggiungiamo enfasi ai nostri discorsi. Così più onestamente dovrei dire: quel che Gilles ha detto è coerente con quel che penso, o mi è utile per confermare le mie idee. Oppuredovrei dire: bravo Gilles, sono d'accordo. C'è qualche senso in queste idee, ma a contatto con la realtà rivelano la loro inutile astrattezza. Quando la madre di Giulio Regeni e la sorella di Stefano Cucchi chiedono la verità non stanno affatto pensando a coerenza, utilità, dissenso o approvazione: vogliono sapere come realmente sono andate le cose.

Il secondo fraintendimento è forse il più importante anche se non è molto considerato, ed è dato dalla differenza tra il mondo filosofico e il mondo extra-filosofico di considerare la verità. I filosofi (la maggior parte di loro) nel parlare di <<verità>> non si riferiscono tanto ai diversi contenuti veri che possiamo conoscere o non conoscere, ma al concetto di verità, la funzione concettuale che mettiamo in opera quando diciamo o pensiamo:<<questo è vero>>, <<questo non è vero>>. Quando si parla di verità nel linguaggio comune spesso si parla piuttosto dei contenuti veri, o quelli che riteniamo essere tali.

Qualcuno dirà <<ci sono molte verità>>, intendendo che ci sono diverse opinioni su uno stesso argomento, qualcun altro dirà <<no, c'è una sola verità>>, intendendo che se una opinione è vera, allora le cose stanno così, è la sua negazione è falsa. Ovvio che stanno parlando di diverse questioni: il primo parla del disaccordo che spesso abbiamo nel giudicare il vero e il falso, il secondo sta parlando dei fatti che rendono vero ciò che diciamo o pensiamo. Il primo parla di quel che riteniamo vero, il secondo della proprietà dell'essere vero. In entrabi i casi, il concetto di verità si comporta nello stesso modo, ossia correla il linguaggio al mondo. 

Naturalmente, la prospettiva concettuale non è il requisito distintivo dei filosofi, anzi è adottata più o meno consapevolmente da tutti coloro che sono interessati a capire come evitare gli errori e gli inganni di una società iper-comunicativa. Ma incontriamo qui un altro fraintendimento, basato sulla differenza che è stata a volte suggeririta, anche se non se ne sono mai tratte con chiarezza le conseguenze pratiche. Si tratta della differenza tra il verum latino e l'aletheia greca. Le eimologie variano, però possiamo ammettere che la prima nozione rimandi al vero narrato, riferito dalle fonti più o meno ufficiali, mentre la seconda rievoca il meccanismo del disvelamento, che attiviamo quando chiediamo verità, o ci interroghiamo sul possibile essere vero di una tesi politica o un'ipotesi scientifica, ed è dunque più adattabile alla prospettiva concettuale. L'a-letheia fu interpretata da Martin Heidegger come <<non-nascondimento>>, ma traendone a mio parere idee complicate. Invece la negazione implica nel concetto ci dice qualcosa di piuttosto semplice: ci ricorda che il rapporto tra pensiero e mondo, che domina i nostri discorsi e pensieri, può fallire, e a volte quel che riteniamo vero, o ci viene presentato come vero, non lo è affatto. Ci occorre allora l'a-letheia, il lavoro del concetto.

Di qui un fraintendimento piuttosto diffuso, tra filosofi e non-filosofi: l'ide che la nozione di verità sia il contrassegno di una posizione dogmatica, mentre sembra evidente che l'a-letheia ha anzitutto e più propriamente un'applicazione scettica, anzi il concetto primario della skepsis, la ricerca. Non parlo di verità, nè ci penso, se non ho dubbi e perplessità, e non devo discutere con qualcuno. Non dico nè penso <<quel che ha detto Gilles è vero>> nel caso in cui Gilles abbia parlato, e nessuno abbia messo in dubbio le sue parole. Ci penso invece, o lo dico, se c'è una controversia, e qualcuno ritiene che Gilles abbia mentito. In pratica, il concetto di verità compare quando non abbiamo verità e ne abbiamo bisogno. Se devo ragionare, cioè cercare di completare le mie verità incompiute, se devo difendere una tesi o verificare un'ipotesi, ecco che la funzione-verità si presenta nella mia mente, e diventa all'improvviso centrale nei miei pensieri.

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