Di cosa parliamo, quando parliamo di verità?
Nel
tempo dell'informazione diffusa, della globalizzazione digitale, esiste
ancora la verità? O esistono le verità? Per esempio: che cosa significa
che <<questa cosa è vera>>? Qual'è la verità dei sensi e
quella della scienza. E infine la verità dell'arte.
L'idea che il mondo contemporaneo abbia anzitutto un problema di verità è diventata un'idea dominante nei discorsi pubblici. La letteratura sull'argomento è cresciuta in modo esponenziale, ma non sembra che ci siano idee chiare e condivise circa la natura del problema, e perchè e come possiamo occuparcene e se possibile risolverlo. Di che cosa parliamo quando parliamo di verità? Perchè abbiamo ancora la volontà di verità (che Nietzsche giudicava discutibile), e non ci siamo arresi allo tsunami dell'informazione digitalizzata?
La risposta non è chiara, e la filosofia non aiuta molto. La quantità di teorie, la loro complicazione, le diverse prospettive in cui vengono formulate, rende inutile ogni sforzo di unificare la filosofia della verità (operazione tentata con scarso successo da Theodora Achourioti e altri studiosi in un volume edito da Springer nel 2015), è usarne i risultati. Bisognerebbe ridurre le divergenze, e non è facile. In generale l'arte della riduzione senza sacrificio è difficile, e in questo caso il tema sembra troppo vasto e troppo frequentato.
Ma
forse si può iniziare a riflettere su alcuni tipici fraingtendimenti
che riguardano il concetto di verità, e provare a dissolverli. Il primo
riguarda il significato di vero. Che cosa intendo dire
quando per esempio dico quel che ha detto Gilles è vero? La risposta ovvia è: intendo dire qualcosa come così stanno le cose: quel che ha detto Gilles è vero
= le cose stanno così come Gilles dice. Un filosofo, o una persona
informata di fatti filosofici, direbbe che questo significato realistico
del termine è molto discutibile, e che quando parliamo di verità
parliamo di coerenza, o di utilità cognitiva, o semplicemente
aggiungiamo enfasi ai nostri discorsi. Così più onestamente dovrei dire:
quel che Gilles ha detto è coerente con quel che penso, o mi è utile
per confermare le mie idee. Oppuredovrei dire: bravo Gilles, sono
d'accordo. C'è qualche senso in queste idee, ma a contatto con la realtà
rivelano la loro inutile astrattezza. Quando la madre di Giulio Regeni e
la sorella di Stefano Cucchi chiedono la verità non stanno affatto
pensando a coerenza, utilità, dissenso o approvazione: vogliono sapere
come realmente sono andate le cose.
Il secondo fraintendimento è forse il più importante anche se non è molto considerato, ed è dato dalla differenza tra il mondo filosofico e il mondo extra-filosofico di considerare la verità. I filosofi (la maggior parte di loro) nel parlare di <<verità>> non si riferiscono tanto ai diversi contenuti veri che possiamo conoscere o non conoscere, ma al concetto di verità, la funzione concettuale che mettiamo in opera quando diciamo o pensiamo: questo è vero, questo non è vero. Quando si parla di verità nel linguaggio comune spesso si parla piuttosto dei contenuti veri, o quelli che riteniamo essere tali.
Qualcuno dirà ci sono molte verità, intendendo che ci sono diverse opinioni su uno stesso argomento, qualcun altro dirà no, c'è una sola verità, intendendo che se una opinione è vera, allora le cose stanno così, è la sua negazione è falsa. Ovvio che stanno parlando di diverse questioni: il primo parla del disaccordo che spesso abbiamo nel giudicare il vero e il falso, il secondo sta parlando dei fatti che rendono vero ciò che diciamo o pensiamo. Il primo parla di quel che riteniamo vero, il secondo della proprietà dell'essere vero. In entrabi i casi, il concetto di verità si comporta nello stesso modo, ossia correla il linguaggio al mondo.
Naturalmente,
la prospettiva concettuale non è il requisito distintivo dei filosofi,
anzi è adottata più o meno consapevolmente da tutti coloro che sono
interessati a capire come evitare gli errori e gli inganni di una
società iper-comunicativa. Ma incontriamo qui un altro fraintendimento,
basato sulla differenza che è stata a volte suggeririta, anche se non se
ne sono mai tratte con chiarezza le conseguenze pratiche. Si tratta
della differenza tra il verum latino e l'aletheia greca. Le
eimologie variano, però possiamo ammettere che la prima nozione rimandi
al vero narrato, riferito dalle fonti più o meno ufficiali, mentre la
seconda rievoca il meccanismo del disvelamento, che attiviamo quando
chiediamo verità, o ci interroghiamo sul possibile essere vero di una
tesi politica o un'ipotesi scientifica, ed è dunque più adattabile alla
prospettiva concettuale. L'a-letheia fu interpretata da Martin
Heidegger come <<non-nascondimento>>, ma traendone a mio
parere idee complicate. Invece la negazione implica nel concetto ci dice
qualcosa di piuttosto semplice: ci ricorda che il rapporto tra pensiero
e mondo, che domina i nostri discorsi e pensieri, può fallire, e a volte quel che riteniamo vero, o ci viene presentato come vero, non lo è affatto. Ci occorre allora l'a-letheia, il lavoro del concetto.
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