Villette, l’opera migliore segnata dall’ispirazione e dal dolore per la morte della sorella Emily.
La canonica di Haworth, il cuore della narrativa inglese dell’Ottocento, stava in cima a una ripida collina dello Yorkshire. Lì, in vetta, il terreno disegnava un rettangolo: la canonica, la chiesa e la scuola formavano tre lati di questo rettangolo; mentre l’area centrale era occupata da un cimitero e dalle sue lapidi, che gettavano la loro ombra contro gli abitanti – il reverendo Brontë, la signora Brontë, i sei figli, che in pochi anni, l’uno dopo l’altro, avrebbero lasciato questa terra. Le cinque sorelle Brontë amavano la loro casa desolata. Ma più amavano la brughiera, che avvolgeva da tutte le parti la casa, la chiesa e il cimitero, e che a tarda estate si copriva di erica intensamente purpurea. Allora lo splendore delle vaste colline, le grandi onde color porpora e ametista ricordavano, per mesi, che il trionfo della natura e della vita era in tessuto di morte.
Quando le due sorelle maggiori morirono, Charlotte Brontë aveva nove
anni: anche la madre era morta; e lei diventò quasi la madre del
fratello Patrick e delle due sorelle minori, Emily ed Anne. Era molto
piccola: fisicamente sottosviluppata, come diceva di sé. Aveva morbidi
capelli color bruno bruciato: occhi grandi dello stesso colore – che
guardavano apertamente gli occhi degli altri, e in questo momento gli
altri si accorgevano che quel bruno era composto da una varietà di
sfumature; voce dolce, che a volte esitava un poco nella scelta delle
espressioni. Disegnava benissimo, e rapidamente. Ogni volta che aveva
l’opportunità di esaminare un quadro, un’incisione o un disegno, lo
osservava a lungo, con gli occhi quasi appoggiati alla carta. Tutto
quello che scorgeva lo spiegava con parole estremamente decise.
«Io non sono come te – scriveva ad un’amica –. Se tu conoscessi i miei
pensieri, i sogni che mi assorbono, e la sfrenata immaginazione che a
tratti mi divora e fa sì che io trovi qualsiasi compagnia miserabilmente
insipida, avresti compassione di me e, non esito a dirlo, mi
disprezzeresti. Conosco i tesori della Bibbia, li amo e li adoro. Posso
vedere il Pozzo della vita in tutta la sua limpidezza e in tutto il suo
fulgore. Ma quando mi chino a bere le sue pure acque, esse si ritraggono
dalle mie labbra come se io fossi Tantalo».
Aveva un grandissimo affetto per Emily, la sorella innamorata della
solitudine, quello spirito libero, selvaggio, logicissimo, pieno di
volontà, che si sentiva a suo agio soltanto sulle colline coperte di
erica. «Mio caro amore», «mio amore bello» erano le parole abituali con
cui si rivolgeva a lei. Ma forse non la comprese mai: se disse che Cime
Tempestose, il più bel romanzo europeo dell’Ottocento, era «immaturo».
Non penetrava in lei; sapeva che non si poteva penetrare in lei; in
nessuno dei recessi della sua mente, che restava chiusa agli esseri
umani e forse aperta agli animali. Emily taceva: Charlotte parlava anche
a suo nome, sebbene probabilmente non sapesse dire quello che si
nascondeva nel cuore della sorella. Si erano divise i lavori di casa:
Emily faceva il pane e cucinava, mentre Charlotte teneva in ordine le
stanze, cuciva e stirava. Dopo le nove di sera, le due sorelle si
trovavano insieme nel salotto e si raccontavano gli intrecci dei romanzi
che avevano immaginato e che negli anni successivi avrebbero scritto.
Nell’ottobre 1848, a 29 anni, Emily si ammalò. Era molto magra e
pallida. Il raffreddore e la tosse erano ostinati. Se si muoveva con un
certo slancio, Charlotte si accorgeva che le mancava il fiato. Non
parlava mai di sé. Era inutile farle domande: non si otteneva mai
risposta. Era ancora più inutile consigliarle qualche rimedio: non li
prendeva. Spesso·Charlotte ed Anne lasciavano cadere in grembo il lavoro
di cucito o smettevano di scrivere, porgendo orecchio al passo
esitante, al respiro affannoso, alle pause frequenti con cui la sorella
saliva le scale. Non osavano parlare: ancor meno offrivano il tenero
aiuto di una mano amica. Se ne stavano sedute, immobili, silenziose,
guardando quel viso sparuto, devastato, pallidissimo. La profonda tosse
secca: il respiro ansimante; questi sintomi erano accompagnati da dolori
al petto e ai fianchi.
La sollecitudine con cui Emily provvedeva agli altri era eccezionale:
non aveva la minima indulgenza verso se stessa: lo spirito era
inesorabile verso la carne; dalle mani tremanti, dalle membra spossate,
dagli occhi sempre più appannati esigeva lo stesso impegno di quando era
stata in buona salute. Rifiutava ostinatamente l’intervento di un
dottore, e non tollerava nemmeno che Charlotte vi accennasse. Quando un
medico fu mandato a chiamare e si presentò, Emily si rifiutò di
riceverlo. Le sorelle dovettero limitarsi ad esporgli i sintomi che
avevano notato in lei. Quando furono portate le medicine mandate dal
medico, Emily rifiutò di prenderle, negando di essere ammalata.
Charlotte considerava sempre più spesso la terribile eventualità di
perderla: ma teneva lontano questi pensieri.
Il 2 dicembre 1848 Emily si alzò e si vestì come al solito,
interrompendosi continuamente ma facendo ogni cosa da sola. Poi tentò di
prendere il suo lavoro di cucito, lo prese e cominciò a cucire;
Charlotte non la perse di vista; aveva compreso cosa preannunciava il
respiro rauco, sempre più affannoso e gli occhi che si facevano vitrei.
Emily peggiorò. Poteva soltanto sussurrare con voce rotta. Quando era
troppo tardi, disse a Charlotte: «Se vuoi, fai venire un dottore, ora lo
riceverò». Verso le due del pomeriggio, diede l’ultimo respiro.
«Non c’è più Emily nel tempo, sulla terra, ormai», scrisse Charlotte il
giorno dopo. «Ieri abbiamo quietamente sepolto la sua povera spoglia
terrena sotto il pavimento della chiesa. Siamo molto calme. Perché
dovremmo essere altrimenti? L’angoscia di vederla soffrire è passata, lo
spettacolo delle pene della morte è finito. Non è più necessario
tremare per la dura terra gelata, e per il vento pungente. Emily non li
sente». La calma finì presto. Charlotte non poteva dimenticare il giorno
della morte: esso diventò per lei «Un’idea fissa, più cupa, più
ostinata che mai».
***
I mesi, gli anni passarono. Il 28 maggio
1849 anche Anne, l’ultima sorella, morì. Charlotte rimase quasi
completamente sola. Aveva emicranie, mal di denti, conati di vomito,
palpitazioni, difficoltà di respirare, e con grande pena riusciva a
reprimere le grida se qualcosa o qualcuno la faceva trasalire. Non
sopportava le persone che non aveva mai visto. Non riusciva a dormire:
tutto quanto vi era stato di spiacevole o di urtante durante la giornata
si ripresentava con esasperato rilievo alla sua fantasia sconvolta.
Aveva terribili incubi e da una notte inquieta e insonne precipitava in
una notte ancora più inquieta e insonne. Durante il giorno, nessun
avvenimento era simile a quello precedente, e tutto aveva un’impronta
pesante ed inerte. Si intristiva gettando uno sguardo sulle prospettive
che si aprivano davanti a lei, o contemplando il passato di sventura e
di morte che aveva alle spalle. Aveva l’impressione di essere sepolta:
oppure le sembrava che tutti i morti da lei tanto amati e che, in vita,
l’avevano tanto amata, si incontrassero in un luogo sconosciuto, del
tutto indifferenti verso di lei.
Cominciò a scrivere un nuovo romanzo, al quale diede il titolo di Villette
dal nome di Bruxelles, dove aveva passato anni, come scolara e come
insegnante (lo pubblica Fazi, con la traduzione di Simone Caltabellota e
una bella introduzione di Antonella Anedda).
Non era in grado di scrivere tutti i giorni, a volte trascorrevano
settimane, persino mesi di silenzio; poi, una mattina, si destava
all’improvviso in un mondo chiaro e luminoso, invasata e posseduta
dall’ispirazione. L’ispirazione scompariva di nuovo: era inverno: la
landa era tutta bianca di neve, e i pettirossi venivano tutte le mattine
alla finestra, in attesa delle briciole; e segretamente pensava che
avrebbe dovuto essere messa in una cella di segregazione e nutrita a
pane ed acqua, finché non avesse finito di scrivere il suo libro.
Qualche volta doveva raccontare sensazioni che non aveva mai provato:
per esempio, quelle suscitate dall’oppio. Ripensava intensamente per
molte sere prima di addormentarsi: finché, dopo che il racconto era
fermo a quel punto per varie settimane, una mattina si svegliava avendo
la chiara visione di quelle sensazioni sconosciute, come se ne avesse
avuto la più chiara esperienza.
Villette è il romanzo più bello di Charlotte Brontë: un libro
drammatico, angoscioso, tenero, lirico, ma anche spiritosissimo, com’è
spiritosa la protagonista, Lucy Snow. Vorrei parlarne a lungo. Mi
limiterò a dire che il libro riposa su due intuizioni.
Da un lato, la condizione di chi è abbandonato da Dio: o meglio, poiché
una persona religiosa come Charlotte Brontë non pensava che si potesse
essere abbandonati da Dio, perseguitata da quella forza oscura che la
tradizione greca chiamava il Fato, e di cui la Brontë ignorava il
rapporto con Dio.
D’altro lato, la convinzione che solo le persone felici – quelle che,
per alcuni giorni o alcuni anni, anticipano in terra la felicità del
paradiso – sono benedette da Dio. «Sono perfettamente convinta dice Lucy
– che esistano alcuni esseri, nati e cresciuti in modo tale, dalla
morbida culla fino alla tomba placida e tardiva, che nessuna sofferenza
troppo grande si introduce nella loro sorte, e nessun fiume tempestoso
incombe sul loro viaggio». Ma le persone felici non possono raccontare
le storie delle persone felici: troppa luce accecherebbe. Il senso di Villette
nasce quando una persona infelice, o perseguitata dal Fato, racconta
con radiosa ammirazione la storia di due, o alcune, persone felici: così
Lucy quando parla di Graham e di Paulina. Allora la bellezza di Villette è straordinaria: perché in questo, sopratutto, consiste la letteratura.
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