venerdì 27 ottobre 2023

«Il miracolo Brontë» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

 

Strano debutto del romanzo vittoriano: l’opera meno «vittoriana» che si possa immaginare. Cinquant’anni più tardi avrà un’eco potente nell’opera di Thomas Hardy, il grande romanziere dei paesaggi desolati e delle anime in pena. La comoda e ottimista età è chiusa fra queste due alte parentesi di dolore.

Vi propongo questo capitolo dedicato alle sorelle Brontë tratto dal volume «Letteratura inglese» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di quel capolavoro che è «Il Gattopardo».

 

I miracoli letterari sono i più gradevoli, ma, come tutte le cose gradevoli, rari al massimo punto. Chiunque è capace di estrarre conigli da un cappello, far camminare uno zoppo; e infatti sono cose che si vedono ogni giorno. Ma è assai più raro (è, anzi, quasi unico) che tre ragazze senza cultura, rinchiuse in un presbiterio sperduto in una landa selvaggia, sottomesse ad un fratello prepotente ed un padre ubriacone, si mettano a scrivere ciascuna un romanzo, e che questi romanzi siano tutti eccellenti e significativi, e che uno di essi sia un capolavoro assoluto.

Da uno di voi ho sentito dire, forse senza malignità, che non vi era lapide indicante la casa dove aveva abitato uno scrittore che io non avessi visto. Perciò, adesso, provo quasi ritegno a farvi sapere che sono stato a visitare le pietre di Haworth. Mi son fatto coraggio, però, pensando che una visita a Haworth equivale ad uno studio sul mistero Brontë. Immaginate una piccola casa a due piani, costruita in mattoni rossi, attorno alla quale un giardinetto stento, senza alberi per coprire le sue monotone siepi di bosso, lotta per non morire. All’inizio l’immensità del moor, della campagna sterminata e incolta, gialla di secchezza in estate, rossa per le brughiere in autunno, bianca di neve l’inverno, verde per le erbe in primavera; sempre monocolore, sempre attonita, completamente deserta. Le curve dondolanti delle colline, tutto intorno, invitano al sonno. Per meglio dire inviterebbero al sonno, se non fosse presente il re nemico del luogo, il Vento. Un vento incessante, che galoppa libero come nel mare aperto, che urla oscure minacce l’intere giornate e l’intere lunghissime notti, che ha impedito tutt’intorno la crescita degli alberi.

Wuthering Heights, le alture delle tempeste.
In questo sconsolato e altero paesaggio nacquero, vissero quasi sempre, e morirono le tre sorelle Brontë.

Il loro padre era un pastore anglicano, irlandese di nascita e poverissimo, minato dall’alcolismo, cui venne affidata per compassione questa parrocchia di Haworth, una delle più miserabili del regno. Quando vi giunse aveva una moglie, tisica, e sei figli, cinque femmine e un maschio. Dopo due anni la madre morì, e dopo un altro anno perirono le due figlie maggiori, «uccise nel vento» come scrisse poi Charlotte.

Questi quattro bambini, Charlotte, Emily, Anne e Branwell, crebbero soli: il padre era tutto il giorno in giro a cavallo per le sue cure parrocchiali sparse su un territorio vastissimo e indigente; quando la sera rientrava il gin lo allontanava presto da quel mondo di guai; i ragazzi si educavano e diseducavano l’un l’altro; soldi per una cameriera non ce n’erano. Quando ebbero vent’anni le due sorelle maggiori, Charlotte e Emily, andarono a Bruxelles in un educandato. Vi restarono due anni e poi ritornarono a seppellirsi a Haworth, presso il padre che con l’andare degli anni e l’infierire delle disgrazie era divenuto cupo e silenzioso quasi quanto le tombe del vicino cimitero. Tutte e due rientravano con accresciuta esperienza di vita e Charlotte con in più un suo disperato amore per un professore belga. Essa gli scrisse quattro lettere che sono fra le più ardenti e nel contempo pudiche lettere d’amore che si conoscano. Il professore non rispose mai. L’implacabile vento spazzò via qualche sospiro di più. Le sorelle morirono ad una, ad una: nessuna raggiunse i trent’anni. Il fratello, genialoide e violento, si diede all’oppio, morì anch’egli presto. La triste casa sul colle restò vuota.

Le tre sorelle avevano scritto in collaborazione un volume di liriche che comparve sotto uno pseudonimo e che meritatamente non ebbe successo. Poco dopo Charlotte, l’innamorata, scrisse ma non pubblicò un romanzo, The Professor, che raccontava in modo appena velato le sue esperienze sentimentali a Bruxelles. È un’opera indubbiamente mancata, nella quale l’inesperta aquiletta si affanna a rompere con gli artigli le reti della propria ignoranza letteraria. Ma ad ogni rigo vi si sente un vergine rigore che è di già più di una promessa. L’anno dopo, senza altri preamboli, ecco Jane Eyre, uno dei più singolari romanzi del tempo, nel quale l’inesperienza è diventata originalità, la vita oppressa e conculcata dell’autrice diviene origine del primo manifesto femminista, della prima proclamazione dei diritti della donna a non esser più, come Charlotte dice, «the male’s cattle», il bestiame del maschio. Nel Jane Eyre l’autrice si rivela padrona della propria tecnica e produce un libro pieno di fuoco contenuto, uno dei romanzi più vitali e commoventi che siano stati scritti. Dopo di questo essa scrisse Shirley, pieno di bellezze dell’ordine meno comune, di bellezze puramente
spirituali che non debbono nulla a seduzioni materiali. Seguì Villette, che espone la medesima storia
autobiografica del Professor trasfigurata però dall’accresciuta esperienza; un’opera, la sua ultima, di indubitabile classe.

La terza sorella, Anne, scrisse anche lei un’opera, The Tenant of Wildfell Hall, che non raggiunge però l’intensità delle opere di Charlotte. Ci rimane adesso di parlare di Emily, l’ardente, la geniale, l’indimenticabile, l’immortale Emily. Essa non scrisse che pochi versi, brevi liriche aspre, ferite, alla cui malia non si sfugge. E un romanzo, Wuthering Heights, un romanzo come non ne sono mai stati scritti prima, come non saranno mai più scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma, veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di represse passioni, narrate con uno stile teso e corrusco spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico, se mi si consente il bisticcio, ha qui raggiunto il proprio zenith: i licantropi alla Borel, i mostri di Godwin sono da questa opera rigettati nel nulla. L’ho riletta apposta adesso: l’impressione di velata grandezza, di lancinante dolore che essa mi aveva già dato è ritornata più penetrante che mai. Emily tubercolotica deve aver molto ascoltato l’urlo del vento durante le sue notti febbrili. In questo suo libro, che appartiene alla categoria più alta dei capolavori, essa è discesa giù, giù nell’animo umano e, naturalmente, è giunta all’inferno.

Strano debutto del romanzo vittoriano: l’opera meno «vittoriana» che si possa immaginare. Cinquant’anni più tardi avrà un’eco potente nell’opera di Thomas Hardy, il grande romanziere dei paesaggi desolati e delle anime in pena. La comoda e ottimista età è chiusa fra queste due alte parentesi di dolore.

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