Non perdiamo un'occasione unica per conoscerci meglio: leggiamolo, rileggiamolo.
Saccheggiato da politici e opinionisti, citato spesso a sproposito da giornalisti e romanzieri, preso in mano con fatica da studenti annoiati, considerato ponderoso da lettori la cui tolleranza non va oltre le duecento pagine, Fedor Dostoevskij resta uno dei pilastri della nostra cultura. A duecento anni dalla nascita 11 novembre e centoquaranta dalla morte 9 febberaio, non ha perso un grammo di attualità.
Contemporaneo di Tolstoj e Turgenev, sis tacca da tutti per la lucidità, la sottigliezza, l'energia con cui indaga nei nostri vizi, nelle nostre paure, nelle cnostre certezze, nelle nostre depravazioni. Prima di Freud, che si laurea proprio nell'anno della morte dello scrittore, affonda le radici nel nostro inconscio e ci mette in causa. Parla di noi, parla di noi. Poco è cambiato in questo secolo e mezzo. Dice di noi cose che sappiamo, che non sappiamo o che non vogliamo sapere. Non solo, parla di cose nostre: di terrorismo, di giustizia, di femminicidio, di pedofilia, dell'orrore delle carceri, del peso delle parole dette senza pensare che qualcuno le può mettere in partica.
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