domenica 29 ottobre 2023

REVIEWS DI: GENIE LA MATTA - ADELPHI

 

"Génie la matta": le vite ai margini del romanzo di Inès Cagnati  

Tradotto per la prima volta in Italia. il libro dell'autrice francese descrive il rapporto complesso e doloroso tra una madre e una figlia

Una bambina presenta sua madre e non dice il nome, ma il soprannome con cui la gente la chiama: Génie la matta. La donna cammina svelta lungo le vie del paese o nei campi, la bambina la segue e deve correre, per starle dietro. È la prima pagina di un romanzo apparso in Francia nel 1976 e in uscita ora per Adelphi: Génie la matta, appunto. L’autrice, mai tradotta in italiano, è Inès Cagnati, figlia di immigrati veneti. Scomparsa nel 2007, era rimasta sempre lontana dai salotti letterari francesi.


Nata senza padre, Marie è una bastarda per tutti, compresi i suoi nonni materni. «La più bella famiglia della regione» ha ripudiato Génie, colpevole di averla disonorata. E allora questa donna scende in silenzio la scala sociale, fino in fondo, dove c’è soltanto da fare la serva nelle fattorie prestandosi ai lavori più sporchi e gravosi, per esempio ammazzare i conigli malati. Abita con Marie in una casupola cadente, assediata di notte dalle volpi che abbaiano per la fame. In lontananza le luci della casa di famiglia, perduta con tutto il resto.


A volte la sera Génie si lascia andare al pianto davanti al fuoco e pronuncia poche parole: «non ho avuto niente, io». La risposta della figlia – «hai me» – non le basta. Eppure è struggente la voce di questa bambina che di continuo la insegue, in attesa di uno sguardo, un tocco, una morbidezza del collo dove potersi rifugiare con la faccia. La inseguirà sempre, senza mai davvero raggiungerla se non in qualche breve momento. Certe madri non si lasciano prendere. Sono divorate da altro, altri dolori, troppo grandi per essere consolati da chi è piccolo.


Il legame con la madre mancante si rivela anche in questo libro il più forte e assoluto, non conosce tregua, distrazioni o tradimenti, né permette di crescere liberi. Marie è prigioniera in un’attesa eterna di quell’unico amore e nella paura di un definitivo abbandono. È sempre alla ricerca di un pretesto per avvicinarsi a Génie e sentirsi dire: «non starmi tra i piedi». La pura gioia – mai la rabbia o una protesta – della bambina sfinita quando la madre rincasa tardi, dà la misura della solitudine che Marie ha patito durante il giorno. L’unica speranza è riposta nel ricongiungersi all’altra, essere ricompresa come figlia persino in quel soprannome sprezzante.

Commuove l’adorazione di Marie verso questa figura seduta a notte ormai fonda davanti al camino, intenta a pulirsi con un legnetto le crepe sanguinanti dei talloni. È il solo gesto di cura che Génie ha per il proprio corpo. E intanto le dice: «va’ a letto», dove raramente l’abbraccerà e il più delle volte dormirà lontanissima nella sua stanchezza. Dorme Génie, segretamente certa che quella figlia, partorita in seguito a uno stupro, è l’unica sua fortuna al mondo. La scosta ogni giorno da sé – «non starmi alle calcagna» – per non essere intralciata durante il lavoro, forse anche per proteggerla dalla propria rovina, dalla maldicenza che le accomuna. A Marie non resta che sognare una famiglia per metà umana e per metà animale: loro due, la vaccherella Rose e l’anatroccolo Benoît, un sogno che pure si avvera, ma per non durare. Tuttavia Génie è sicura che quella bambina diventerà altro da lei, studierà in un pensionato a La Rochelle: è questa la sua condizione per Antoine, l’uomo che oserà immaginare Génie la matta come compagna, sfidando i pregiudizi di una piccola comunità rurale e isolata, tutta dedita a ingozzare oche e allevare maiali. Questa Francia contadina del ’900 non è così distante dalla provincia sonnacchiosa che ci ha raccontato Annie Ernaux, ma è più primitiva e violenta.


Ci sono vite disgraziate, in cui il poco e raro bene che arriva sembra, a posteriori, solo uno scherzo crudele. È la sorte che gioca a illudere e ingannare chi quelle vite se le ritrova. Ed è forse questo il senso di un epilogo che mi ha lasciato turbata e in silenzio come non mi capitava da tempo. Sarà per la voce disarmante della bambina ormai ragazza, che incanta il lettore mentre incanta e calma se stessa. Vari leitmotiv ricorrono tra le pagine come una sorta di punteggiatura fiabesca, ricordano proprio le favole che i bambini vogliono sentire mille volte dagli adulti. A Marie nessuno le ha mai raccontate, per anni deve ripetersele da sola.
Finché nella sua vita compare Pierre, una specie di visione. A ogni incontro la lascia con promesse di un futuro radioso «sulle dolci isole dove crescono i frangipani» e dove lui è nato, dice. Con sfumature poetiche sempre diverse – «all’ombra dei profumi amari» – le descrive i luoghi esotici in cui vivranno felici. Queste brevi pagine dense di immagini vivide bilanciano con uccelli, fiori e tramonti sgargianti le altre che riportano alla durezza del quotidiano. La scrittura di Inès Cagnati è concisa e ritmata da pause frequenti e necessarie, procede senza deviazioni verso un finale che mi ha lasciato Génie e Marie nel cuore.
 

Il libro. Génie la matta di Inès Cagnati è edito da Adelphi (Traduzione Ena Marchi, pagg. 184, euro 18)

“Spesso piangeva, la sera, davanti al fuoco.

I suoi occhi avevano assunto il colore delle lacrime.

Diceva: 《Non ho avuto niente, io》.

Io dicevo:

《Hai me》.

Ma lei continuava a piangere.

Allora credevo che non mi volesse.

Volevo amarla ogni minuto della mia vita perchè mi volesse.”

I ricordi di una bambina tormentata dalla paura di non essere amata.

Figlia non voluta, macchia nella castità della famiglia, frutto del peccato che non può cancellarsi.

“”Génie la matta”, pubblicato da Adelphi Editore e tradotto da Ena Marchi, porta le tracce di un dolore infinito che chiude in un cerchio due figure femminili.

La prima è ombra dell’altra, ramo di un albero secco, mansueta icona di una storia più grande di lei.

Costretta a portare come segno distintivo l’onta e la rassegnazione di colei che l’ha partorita.

L’altra introversa, piagata, incapace di gesti e di parole.

Sullo sfondo il paese e la distanza siderale dal morbo della colpa.

Il freddo delle notti, il lavoro sfibbrante in campagna, l’odore aspro di un corpo stanco.

“Mi ricordo degli odori, del sole sui muri, di lei nelle cucine buie, dei girasoli che giravano nei campi.”

E quelle parole che arrivavano come macigni.

“Non starmi tra i piedi.”

Non c’è rancore o rabbia, solo una sottile pietas per colei che, prima della disgrazia, rideva e cantava.

I sentimenti sono rarefatti, prigionieri e solo il ricordo colma le lacune.

Pochi abbracci stentati e il profumo delle marmellate, il cielo di cartapesta e il sonno condiviso.

Entra nella narrazione inatteso un personaggio che allude alla speranza.

Si sposta il tempo al presente e Pierre, incontrato in una stazione abbandonata, sembra una visione.

Promette il viaggio in isole di luce, inventa storie e fa intravedere un futuro.

In un’altalena che va veloce si torna al passato, alla casa, alla nonna nemica, alla gente che sa solo offendere.

Inés Cagnati è vissuta isolandosi dai circuiti letterari, ha scritto racconti con quel realismo che ricorda i classici.

In questa opera la poesia esplode mostrando che il tormento si cheta grazie alla musicalità del fonema.

“Sei la mia dolce terra in riva all’oceano errante.”

E l’acqua ci avvolge mentre la trama si infittisce e si svelano segreti.

Il dramma si stempera mentre “un’umile margherita mezzo sfiorita” prova a lasciare una piccola ma intensa scia.

Seguiamola e cerchiamo leggendo tra le righe ciò che resta delle ceneri di esistenze difficili.

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Agli occhi degli altri Génie diventa semplicemente matta, perché con il suo mutismo sembra scampare alle prescrizioni di comportamento definite dalla società: “Il matto è colui che ci rassicura su noi stessi”, nota Cagnati durante un’intervista con Laurence Paton, “l’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Ne è il garante”. Soltanto il confronto con un matto e il suo modo di vivere – strano, incomprensibile, deviato – permette di determinare la propria normalità e dunque tranquillizza.

Génie non può però svestire il ruolo che la società le ha assegnato: quando finalmente è riuscita a costruirsi qualcosa di molto simile a una famiglia, con un marito e un figlio, la piccola comunità, guidata dalla stessa madre di Génie, cercherà di farla rinchiudere in un istituto. “Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi” urla nell’atto II dell’Enrico IV, l’omonimo personaggio pirandelliano.

Non riuscendo nell’intento, la comunità punirà Génie sottraendole definitivamente la felicità che ai loro occhi non meritava.

 

 

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